lunedì 5 settembre 2011

Garibaldi a Napoli, storia di tradimenti e camorra














NAPOLI - “Sulla splendidissima applausi al Luogotenente Armata Italiana e Guardia Nazionale. Tranquillità ammirevole”. Con queste poche parole il segretario generale del Ministero degli Interni De Blasio, si rivolgeva a tutti i governatori ed intendenti delle province meridionali del Regno d’Italia l’otto settembre 1861. Il testo si riferisce alla trascorsa giornata del 7 settembre 1861 quando, 150 anni fa, si celebrava il primo anniversario dell’ingresso di Giuseppe Garibaldi a Napoli. Da specificare che la tranquillità paventata da De Blasio è riferita proprio allo stesso Garibaldi. Timore del Governo unitario, guidato all’epoca dal Barone Bettino Ricasoli, era che “l’eroe dei due mondi” avesse tentato, in quella occasione commemorativa, di richiamare alle armi nuovi volontari per invadere lo Stato Pontificio e occupare Roma saldamente presidiata dai francesi di Napoleone III (tentativo che poi Garibaldi mise in atto l’anno successivo partendo dalla Sicilia e concludendo la sua marcia sull’Aspromonte, ferito dai soldati del generale Pallavicini). E mentre il Governo temeva Garibaldi e gioiva per il prolungarsi del suo “riposo” a Caprera, la guerriglia antipiemontese continuava senza sosta alla faccia della tranquillità ammirevole prospettata al Ministero degli Interni. Dagli archivi della Prefettura di Terra di Lavoro risulta che, proprio mentre le amministrazioni locali imponevano la celebrazione del 7 settembre le bande di Chiavone colpivano ripetutamente nell’Alta Terra di Lavoro (soprattutto nei dintorni di Sora e Ceprano), quelle dei fratelli La Gala imperversavano nell’agro nolano mentre numerose risultano essere le proteste contro gli abusi dei nuovi padroni e le proteste politiche, dalla comparsa di scritte “sediziose” alla diffusione di volantini contro Vittorio Emanuele II e l’Italia unita. Non a caso man mano che ci si avvicinava al fatidico 7 di settembre aumentava la tensione. In fin dei conti, i ricordi erano ancora troppo nitidi nelle menti degli oppressi. L’anno precedente, nel 1860, Garibaldi aveva fatto il suo ingresso a Napoli dopo una rapida marcia cominciata con la vergognosa resa del Generale napoletano Ghio a Soveria Mannelli e proseguita, senza incontrare resistenza, fino a Salerno dove l’invasore prese un treno con una decina dei suoi per arrivare a Napoli quanto prima. La rivoluzione marciava a piena forza. Francesco II, mal consigliato e mal preparato doveva decidere se restare nella capitale e metterla in stato d’assedio o riparare al di là del Volturno dove le fortezze di Capua e Gaeta delimitavano l’area adatta ad uno scontro militare. 














Scelse la seconda strada, consigliato dal Ministro degli Interni Liborio Romano e contro il parere dei conservatori di corte, della consorte e di numerosi generali che già più volte, nei mesi precedenti il naufragio del Regno, gli avevano consigliato di montare a cavallo per guidare il suo esercito e ributtare a mare il pirata venuto dal Piemonte con la complicità manifesta di quel governo. Prontamente Liborio Romano comunicò a Garibaldi, in vista di Salerno, di affrettarsi poiché la capitale del sud lo aspettava. Così con pochi uomini decise di servirsi delle ferrovie del Sud senza incontrare alcuna resistenza, nemmeno alla stazione di Nocera dove un contingente di oltre 5mila soldati napoletani stava raggiungendo la nuova linea del fronte fissata al Volturno. A organizzare l’ingresso di Garibaldi era stato lo stesso Romano che, per minare la sicurezza del Governo, aveva spinto il Sovrano all’adozione della Costituzione e di una larga amnistia che aveva permesso la fuoriuscita di decine di criminali comuni e capintesta dei quartieri popolari. Quasi tutti vennero poi, sempre dallo stesso Don Liborio, inquadrati nella Guardia Nazionale dove commisero violenze “legalizzate”. I capi della criminalità cittadina come Tore ’e Criscienzo, Salvatore Jossa, Antonio Lubrano e i vari Mele e Capuano, furono immediatamente contattati da Liborio Romano per organizzare l’accoglienza al conquistatore del Sud con la promessa che, confermato nella sua qualità di Ministro degli Interni, non avrebbe alzato un dito per fermare la mano di questa prima camorra. Così nel giro di 48 ore, all’alba del 7 settembre, tutto era pronto. “Napoli quel girono stava così – racconta Giacinto de’ Sivo – nobiltà esulante, borghesia in casa, botteghe chiuse, tutte le persone del diritto fugate, carcerate o spaurite, i castelli con soldati regi cui si vietava l’azione, ogni vero napoletano commiserante la patria. Invece settarii di tutto il mondo corsi al grasso convito, le migliaia mandati da Torino a simular popolo, faziosi provinciali fuggiti dalle reazioni, camorristi prezzolati, contrabbandieri, tristi tenuti tant’anni a segno ora sfuriati, malfattori scarcerati, proletari, bagasce, monelli, tutti irti d’arme, con pistole e pugnali sguainati, scorrevano le strade trionfanti […] Alcuno si vantava liberale del 1820, che avuto dal Re a grazia il servire, ora si pavoneggiava del tradimento […] Fa gran gridare Italia, Garibaldi, Liborio, re galantuomo; e camorristi maschi e femmine con coltelli luccicanti, gridanti a gola piena sforzavano ogni persona a gridar con essi Italia una […] Carrozze con camorristi in piè, squassanti arme e drappi; altre con femminacce luride baccanti, burlevoli amazzoni; altre con preti spiritati usciti dal bagno di Nisita, o venuti da lontano a far clericali ovazioni […] Di signori, benché invitati, qualcun raro andò, nessuno del Municipio. Presente era la ben creata Guardia Nazionale”. In mezzo al turbinio tricolorato Garibaldi, scortato da Romano e dai camorristi, venne portato in trionfo nel Duomo dove si consumò il primo crimine della Napoli garibaldina. Le porte del Duomo vennero sfondate, giacchè erano state sigillate dai custodi per impedire i saccheggi, una volta accortisi che gli arredi sacri erano stati portati al sicuro su ordine del Cardinale Sisto Riario Sforza, i sacerdoti dei Garibaldini, tra cui spiccavano le figure di Frà Pantaleo e Giuseppe da Foria, non esitarono a recarsi presso la vicina chiesa dei Girolamini, malmenare i custodi e i sacerdoti che si rifiutavano di cantare il Te Deum, saccheggiare gli arredi sacri e trasferirli nel Duomo dove lo stesso Fra’ Pantaleo disse messa paragonando Garibaldi a Mosè e a Cristo, e invitando a gridare “Viva Dio! Viva Maria Immacolata! Viva Giuseppe Garibaldi!”














Finito il regno di Francesco II cominciava quello di Garibaldi, moderno redentore accompagnato da diavoli e diavolesse come “‘a Sangiovannara” Marianna De Crescenzo (sorella di Salvatore) circondata dalla sua corte di prostitute Rosa “‘a pazza”, Luisella “‘a lum a ‘ggiorn” e Nannarella “‘e quatt’ rane”. Tutte donne che vennero poi segnalate come patriote degne di essere elevate come modello cui ispirarsi. Ad un anno di distanza il Governo unitario voleva dimenticare Garibaldi esorcizzando un suo possibile ritorno sulla scena con festeggiamenti obbligati mentre impazzava la guerra civile. L’accordo con la camorra resisteva e Napoli era tenuta al riparo dai colpi della controrivoluzione. Centocinquantuno anni dopo ancora scontiamo gli effetti e i danni di quella maledetta giornata mentre la pratica dell’accordo con la criminalità organizzata è diventata la prassi e ha trovato applicazione in diverse occasioni contribuendo, in modo determinante, a uccidere il meridione.

Roberto Della Rocca

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