giovedì 14 luglio 2016

Balvano (1944) - Corato ( 2016): due tragedie diverse ma con le stesse vittime



il comunicato stampa, prontamente inviato dalla Real casa di Borbone delle Due Sicilie




Pubblichiamo un bell'articolo del nostro Fernando Riccardi sulla recente sciagura che ha colpito le Puglie ma che in realtà ha colpito ancora una volta tutto il Sud.













di Fernando Riccardi


Abbiamo ancora davanti agli occhi quelle scene terribili, quei treni accortocciati come scatole di latta, quelle lamiere contorte in maniera innaturale, quella poltiglia indistinta di ferraglia dove a stento si riuscivano ad intravedere sbiadite tonalità di colori. Ecco cosa rimane del gravissimo disastro ferroviario che si è consumato martedì scorso tra Andria e Corato, in Puglia, e che è costato la vita a 23 persone. Vittime innocenti di una nazione che viaggia a velocità diverse, anche per ciò che concerne le strade ferrate.




D'altro canto come spiegare che Matera è l'unico capoluogo di provincia nella Penisola, ma forse anche in Europa, che non è raggiungibile via treno? Ci sarà pure un motivo alla base di tale assurdità tipicamente italiana oppure anche ciò è dovuto soltanto al caso cinico e baro? Ma, a pensarci bene, di quel tipo di ferrovia se ne può fare sicuramente a meno: su quel tratto a binario unico transitavano ben 140 treni al giorno.




Eppure non esisteva alcun sistema di sicurezza degno di tale nome e in linea con la moderna tecnolOgia. Pensate che lì i responsabili delle stazioni usano comunicare tra loro con il telefono, anche per segnalare la partenza del convoglio. Eppure l'Unione Europea aveva stanziato 180 milIoni di euro per ammodernare la rete ferroviaria nazionale, facendo riferimento soprattutto a quei tratti a binario unico dove può circolare soltanto un treno per volta.



Proprio come quello fra Andria e Corato. Ma quei soldi sono rimasti inspiegabilmente inutilizzati. Adesso inizierà il rimpallo stucchevole delle responsabilità. E mentre l'ineffabile premier Renzi non ha perso occasione per dimostrare una volta di più la sua impalpabilità, le 23 vittime innocenti restano lì, chiuse in quelle malinconiche bare, a segnare con la loro lugubre presenza un'altra tragedia, l'ennesima, subita dalle derelitte genti del Sud.



E così la mente, che non smette mai di girare, specialmente in occasioni di siffatte catastrofi, va subito indietro nel tempo e si ferma al marzo del 1944, una gelida primavera di guerra, di distruzione e di morte. La Penisola è spaccata in due. Al sud stazionano gli anglo-americani e la cricca badogliana. Il centro-nord, invece, è ancora controllato dai tedeschi e dai reparti italiani che hanno deciso di seguire il Duce.


Il fronte è bloccato a Cassino, con gli assalti alleati che si infrangono contro la Linea Gustav, un formidabile baluardo che corre ininterrotto dal Tirreno alle Mainarde. La distruzione del monastero di Montecassino non riesce a sbloccare la situazione che rimane in una fase di stallo grazie anche ai modesti progressi delle truppe anglo-americane inchiodate sulla spiaggia di Anzio. E se nel Lazio meridionale il quadro è drammatico, se le città dell’Italia centro-settentrionale sono martoriate dai devastanti bombardamenti dei cosiddetti alleati con migliaia di vittime innocenti, nella porzione meridionale dello Stivale non è che le cose vadano meglio. Gli anglo-americani, da veri conquistatori, si divertono a mantenere la gente nella miseria più nera. Napoli è lo specchio fedele di tale disperazione: si muore letteralmente di fame e non bastano sigarette e cioccolata per placare i morsi allo stomaco. Si può anche cambiare casacca dall’oggi al domani, ma senza mangiare non si può stare.


E’ vero, c’è la “borsa nera” e per chi ha i soldi il problema non esiste. Anche se per un litro d’olio, invece di 14 lire, ora ce ne vogliono 100. Ma gli altri cosa debbono fare per sfamare la famiglia non avendo neanche un centesimo in tasca? Bisogna industriarsi, darsi da fare. A Napoli è impossibile trovare pane, olio, farina, sale, uova, frutta, carne, ortaggi. Troppo vicino il fronte con i rimbombi delle cannonate che si avvertono nitidi fin sotto il Vesuvio. Bisogna cercare altrove, nelle campagne, laddove, passata la guerra, le attività agricole si sono rimesse in moto. L’occupazione alleata, però, ha troncato gli scambi tra città e campagna. L’hinterland napoletano è in mano ai contrabbandieri: sono loro che fanno incetta dei beni di prima necessità provvedendo a rivenderli, poi, a prezzi stratosferici. Bisogna rivolgersi altrove, andare più lontano. Magari nelle campagne lucane o pugliesi. Un bel cammino ma foriero di rosee prospettive. Iniziano, così, i “viaggi della fame”. Frotte di disperati si aggirano nei pressi della stazione sperando di salire su un treno diretto a sud. Operazione improba: solo due i convogli passeggeri che, in una settimana, collegano Napoli a Bari. Le carrozze sono sempre piene e trovare un posto non è facile. Anche perché, per salire su quel treno, si deve prima ottenere il lasciapassare dal comando alleato. Cosa si fa allora? Semplice: si sale da clandestini sui vagoni merci dove i controlli non troppo rigidi.


E poi tali convogli viaggiano quasi tutti i giorni. Anche il 2 marzo del 1944 un treno merci, l’8017, parte da Napoli con destinazione Potenza. 47 vagoni, una ventina dei quali scoperti, trainati da due locomotive per superare le notevoli pendenze della linea. I carri sono quasi tutti vuoti: deve essere caricato, infatti, un ingente quantitativo di legname per la ricostruzione dei ponti distrutti dalle bombe. Un’occasione irripetibile per quei poveretti che hanno deciso di fare il viaggio da “portoghesi”. Nel corso delle varie fermate il convoglio si riempie di clandestini. Il servizio d’ordine, affidato ad un drappello di militari italiani, è ben disposto a chiudere un occhio, anzi tutti e due, di fronte all’assalto di quei disperati. Fatto sta che sul treno trovano posto 600 passeggeri o giù di lì. Quasi tutti di Napoli e dei paesi limitrofi che si recano in “missione alimentare” nel potentino. Vi è, poi, chi si reca a trovare i parenti al sud e chi, da buon “borsista”, vuole fare il carico di derrate alimentari da rivendere a prezzi esorbitanti.


La giornata è inclemente con freddo, pioggia e qualche fiocco di neve. Ciò malgrado il viaggio fila liscio almeno fino alla stazione di Balvano, piccolo comune a 400 metri di altezza, a soli 32 chilometri da Potenza. Un paese svuotato dall’emigrazione e che nel novembre del 1980 sarà distrutto dal terremoto dell’Irpinia. Qui il treno si arresta: sulla linea a binario unico, infatti, poco più avanti, viaggia un altro convoglio che ha avuto un guasto alla locomotiva ed è stato costretto a fermarsi. La sosta si protrae per una quarantina di minuti. Poi l’8017 riprende la sua corsa. Una corsa di breve durata perché, improvvisamente, all’interno della “galleria delle Armi”, lunga 1.692 metri, si blocca. Le ruote scivolano sui binari viscidi e il treno non riesce a proseguire il cammino. Anche perché ci si trova in un tratto con una forte pendenza.


Malgrado gli sforzi dei macchinisti che gettano palate di carbone nella caldaia e sabbia sulle rotaie, non c’è verso di andare avanti. Ad un certo punto, anzi, il convoglio, che pesa oltre 500 tonnellate, inizia a retrocedere. I ferrovieri, allora, si vedono costretti ad azionare i freni e così il treno resta bloccato. E’ più o meno l’una del 3 marzo 1944. La tragedia si sta consumando silenziosa ma inesorabile. L’ossido sprigionato dalla combustione del carbone (il minerale di provenienza iugoslava, fornito dagli alleati, è di pessima qualità, con un’elevata percentuale di scorie, zolfo e ceneri) si diffonde velocemente nella galleria trasformandosi in una letale nube tossica. Tantissimi restano soffocati passando, senza accorgersene, dal sonno alla morte. Riescono a salvarsi solo quelli che, al momento dell’arresto del treno, sono rimasti fuori dal tunnel. Dopo due ore i ferrovieri di Bella-Muro si accorgono che il treno 8017 non è transitato e decidono di andare ad ispezionare la linea: eppure tra le due stazioni vi sono soltanto 8 km. Nel frattempo a Balvano giungono trafelati e sconvolti due frenatori del treno maledetto che, scampati alle esalazioni, si sono incamminati al buio lungo la tratta in cerca di aiuto. Solo allora si mettono in moto i soccorsi.


Giunti nella galleria si trovano davanti ad una scena apocalittica: centinaia e centinaia di morti. Parecchi stesi inanimati in mezzo alle rotaie. Intorno alle 5 il treno, rimorchiato, viene portato a Balvano con il suo triste carico di morte. Alle prime luci dell’alba un funereo rintocco di campane induce i balvanesi, con in testa il parroco, a scendere alla stazione. Sono loro che estraggono i corpi dal convoglio e li mettono in fila sul marciapiede. Accorre anche il medico condotto che si affanna nel tentativo di portare aiuto ai poveretti ancora in vita. Poi, però, da Potenza, arrivano gli americani e la stazione diventa off-limits. Nessuno può più avvicinarsi, neanche il sindaco, il medico, il sacerdote o il procuratore del Re.


I cadaveri vengono tumulati in tutta fretta, senza alcuna cerimonia funebre, in tre fosse comuni, due per gli uomini e una per le donne, all’interno del cimitero cittadino. Così in fretta che non ci si preoccupa neanche di procedere al riconoscimento. Quante furono le vittime? Difficile dirlo. Una lapide apposta qualche tempo dopo nel cimitero di Balvano parla di 509 morti, 408 uomini e 101 donne. Tra le vittime anche otto militari e sette ferrovieri: di questi si salvarono solo i tre frenatori di coda e il fuochista di una locomotiva che, svenuto, cadde sulle rotaie. Riuscì a farla franca un centinaio di passeggeri anche se essi, subito dopo la tragedia, non si fecero vivi temendo di essere puniti per il loro status di clandestini. Il comando alleato, e questa è la cosa più sgradevole, fece del tutto per nascondere o, quanto meno, per minimizzare l’evento che resta, invece, il più grande disastro ferroviario d’Europa. “Il Risorgimento”, giornale stampato a Napoli, l’unico autorizzato dagli alleati, il 7 marzo diffuse una notizia che parlava di alcuni morti per asfissia in una località dell’Italia meridionale.


Notizia che fu costretto a dare, sia pure in forma vaga, perché il giorno precedente, da Lisbona, era rimbalzato in Italia un comunicato dell’agenzia Reuter sulla tragedia di Balvano, subito ripreso dai giornali nazionali. Il 9 marzo anche il governo Badoglio, da Salerno, si pronunciava sul disastro: “La sciagura deve attribuirsi alla pessima qualità del carbone fornito dal comando militare alleato perché già si era verificato, sulla stessa tratta, un caso di morte per asfissia del personale di macchina di un treno dell’autorità alleata”. Una commissione parlamentare d’inchiesta, dopo un excursus rapido e lacunoso, si affrettò a considerare la sciagura dovuta a cause di forza maggiore. Al contrario, una relazione stilata nel 1952 dal ministero dei trasporti, concluse che il treno 8017 si fermò nella galleria perché il macchinista fu ucciso dalle esalazioni tossiche prodotte dalla combustione del carbone. Carbone che era stato imposto dal comando alleato e che non era adatto ad essere bruciato nelle locomotive in esercizio a quel tempo. Passato lo sgomento alcuni parenti delle vittime iniziarono un iter giudiziario presso il tribunale di Napoli allo scopo di ottenere un risarcimento. Il processo, lungo e tortuoso, si concluse nel 1959 quando gli uffici del Tesoro concessero 320 mila lire ai familiari. La sentenza inserì la vicenda del treno 8017 tra gli eventi bellici per i quali “viene concessa un’indennità per danni immediati e diretti causati da atti non di combattimento, dolosi o colposi, delle forze armate alleate”. Riconobbe, in parole povere, la responsabilità degli alleati. I quali, dal canto loro, more solito, non stettero troppo a preoccuparsene. Dopo aver tentato in tutti i modi di insabbiare l’accadimento (al sindaco di Balvano fu proibito di indagare, mentre nel 1946 l’inchiesta del tribunale di Potenza venne archiviata non essendosi individuati gli estremi del reato), per salvare la faccia davanti all’opinione pubblica, aprirono un’inchiesta i cui risultati non sono mai stati resi noti. Nel 1951 il “Time” scrisse che il governo alleato aveva fatto del tutto per occultare la tragedia soprattutto per evitare un effetto deprimente sul morale degli italiani, già molto scosso dalle vicende belliche.


E mentre si giocava a nascondino, da Napoli e dintorni i parenti delle vittime di quel lugubre viaggio, iniziavano il pellegrinaggio nel piccolo cimitero di Balvano. Molti non avevano neanche una tomba sulla quale piangere o pregare. Una madre, intervistata da un giornalista inglese nel 1962, così disse: “Non so di preciso dove è sepolto mio figlio, ma so che è vicino ai miei fiori”. Sono passati ormai 72 anni da quella terribile tragedia ma, a ben vedere, nel nostro paese le cose non sono cambiate di molto. E la recente tragedia pugliese, consumatasi, guarda caso, anch'essa su di un binario unico, come a Balvano, sta lì a dimostrarlo. E se a quel tempo si coniò l'espressione di “treno della morte”, oggi tutti gli organi di informazione parlano di “binario morto”. Ma nelle due disgrazie c'è un unico comune denominatore: le vittime. Tutti figli del Sud che hanno provato sulla loro pelle cosa significa essere cittadini di serie B, costretti a vivere in una nazione che marcia a velocità troppo diverse. E che, in fondo in fondo, non li ha mai sentiti come suoi figli legittimi.








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