martedì 22 aprile 2014

Il Diritto Naturale come Criterio

Cari amici,
siete cordialmente invitati al Convegno sul Diritto naturale come criterio, che si terràsabato 10 maggio, alle ore 17 presso la Sala san Tommaso, in vico san Domenico Maggiore 18, Napoli .



domenica 20 aprile 2014

Presentazione de La Musica del Sole a Pignataro




Svelati i segreti di Mozart che hanno occultato la Scuola Musicale Napoletana.

Il Maestro Enzo Amato, già protagonista alcuni anni fa per aver svelato un clamoroso plagio operato da Wolfanfg Amadeus Mozart ai danni del musicista di scuola napoletana Pasquale Anfossi - notizia che occupò le prime pagine dei giornali di tutto il mondo con una interminabile discussione - afferma nel libro la Scuola Musicale Napoletana del Settecento e la sua damnatio memoriae avvenuta per dare spazio alla Wiener Klassik, attraverso una serie di menzogne ed omissioni che vedono Mozart protagonista di una manipolazione storica senza precedenti che continua ancora ai nostri giorni.
Il libro è molto atteso per i suoi contenuti che riguardano anche le false attribuzioni delle ultime sinfonie di Mozart tra cui la Jupiter. Lo scopo del libro di Enzo Amato è di riportare alla luce la gloriosa scuola musicale napoletana settecentesca con la verifica dei fatti riscrivendo in parte la storia della musica e confrontando i risultati delle proprie ricerche con i lavori di altri studiosi per ovviare alla soggettività della storia ed elevarla alla dignità di scienza della conoscenza.
La storia della musica classica scritta fino ad oggi in prevalenza da studiosi tedeschi ed inglesi, mostra tutta la faziosità e l'ottusità di chi fa la storia senza ricerca basandosi, nel caso del musicista Salisburghese solo sulle lettere di Leopold Mozart e scrivendo "interpretazioni" storiche che confondono e distorcono gli eventi con scopi celebrativi o diffamatori arrivando a generare persino falsi miti.
Tutto questo in nome della Grande Opera: non si può giungere al Nuovo Ordine Mondiale se non attraverso un disordine scientemente organizzato.

Il giorno 7 maggio alle ore 19 nella Chiesa di Santa Maria della Misericordia di Pignataro, l'associazione culturale "Amici della Musica" e l'Istituto di Ricerca Storica delle Due Sicilie organizzano la presentazione del libro del Maestro Amato (presentato a Parigi alla presenza di S.A.R. la Principessa Beatrice di Borbone Due Sicilie) con il giornalista-editore Pietro Golia che intervista  l'autore.

sabato 19 aprile 2014

S. PASQUA DI RESURREZIONE 2014


"Quando i Piemontesi scambiarono il bidet per una chitarra" di Fernando Riccardi

La retorica risorgimentale, sempre così tronfia e ridondante, non ha conosciuto limiti, negli anni passati ma anche al giorno d'oggi, nell'ammantare di eroico e di prodigioso una piratesca operazione militare che nel 1860 portò all'unificazione politica del nostro paese. Il tutto si consumò tra l'indifferenza delle potenze del continente europeo che preferirono chiudere gli occhi e non intromettersi mentre qualcuna finanziava generosamente la spedizione garibaldesca. D'altro canto perché protestare contro una così generosa azione di civilizzazione? Perché impedire che i “fratelli d'Italia” del Nord venissero a portare civiltà e progesso agli arretrati “cafoni” del Sud? Erano o non erano i meridionali, come li descriveva l'ineffabile conte Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, capitano di Stato maggiore dell'esercito piemontese, “una popolazione che, sebbene in Italia e nata italiana, sembra appartenere alle tribù primitive dell'Africa, ai Noueri, ai Dinkas, ai Malesi di Pulo-Penango”? E poi il Sud non era Italia ma Africa, anzi “Affrica” con due effe: così, in una lettera a Cavour, scriveva Luigi Carlo Farini, primo luogotenente piemontese in quel di Napoli, secondo il quale “i beduini, a riscontro di questi caffoni (sempre con due effe, per carità), sono fior di virtù civile”. Stando così le cose tutto diventava lecito ed ammissibile. Anche le pratiche più disumane e violente: il fine ultimo, infatti, era quello di procurare l'elevazione morale e materiale di un popolo arretrato e incivile. Di ciò che accadde nel meridione d'Italia nel drammatico decennio postunitario, con la feroce guerra civile che vide battersi su fronti contrapposti gli analfabeti “caffoni” del Sud e i “civilissimi” soldati di sua maestà sabauda, ormai, dopo un lungo e persistente periodo di silenzio, si comincia a sapere molto. Anche se ancora tanto deve essere portato alla luce. Non cessano, però, di essere propagate ad arte colossali panzane che hanno il solo scopo di portare acqua al mulino di chi intende continuare a giustificare quell'aggressione “manu militari” che anche i risorgimentalisti più convinti hanno ormai iniziato ad analizzare in maniera più distaccata e meno enfatica. Ricordate la storiella del “facite ammuina” che di tanto in tanto ritorna a galla, magari citata da qualche giornalista di spessore o da esponenti politici che maldestramente vogliono fare sfoggio di nozioni storiche? Si tratterebbe di un ordine impartito dal comandante della nave napoletana nel tentativo di disorientare il nemico che si profila all'orizzonte: “tutti chilli che stanno a prora vann' a poppa e chilli che stann' a poppa vann' a prora...” e così via di seguito. Lo scopo sarebbe quello di generare così tanta confusione a bordo da mettere in difficoltà il nemico che non sa più quali pesci prendere. Davvero una bella trovata, degna del genio tutto napoletano di Totò o di Peppino De Filippo. Il fatto è, però, che ci si trova di fronte ad un clamoroso falso storico: tale norma, infatti, non è contemplata in alcun regolamento della Real Marina del Regno delle Due Sicile. Per cui tutte le pubblicazioni che riportano tale curiosa pratica, con tanto di nomi di ammiragli (Brocchitto e Bigiarelli) che l'avrebbero autorizzata e persino di data (1841), sono del tutto fuorvianti e, soprattutto, contengono una notizia inventata di sana pianta. Notizia falsa ma sicuramente utile a gettare discredito su di una gloriosa istituzione come la marineria napoletana che è stata tra le più efficienti e tecnologicamente avanzate nel corso del XIX secolo. Ma se la “balla” del “facite ammuina” è ormai ai più conosciuta, anche se di tanto in tanto qualcuno ritorna sul luogo del delitto, ve ne sono tante altre che non godono della stessa popolarità e che, subdole ed insidiose, compaiono all'improvviso, colpiscono e lasciano il segno. Come l'aneddoto sui “terroni” sporchi e incivili ai quali i garibaldini, risalendo lo Stivale, distribuivano odorose saponette, invitandoli a lavarsi. I “cafoni”, però, ignorando a cosa servissero quegli strani oggetti e credendo che si trattasse di roba commestibile, tentavano di mangiarle con il risultato che è facile immaginare. Somiglia un po' alla storiella del dottore che prescrive delle supposte al paziente che poi cerca di ingerirle per via orale. Una barzelletta assai poco credibile come l'altra di cui sopra. Anche se lo scopo è sempre lo stesso: dipingere i meridionali alla stregua delle tribù primitive dell'Africa nera. Ora invece voglio raccontare una storia, anch'essa esilarante ma tremendamente vera, della quale si trova traccia in un documento di archivio. Quando i piemontesi occuparono Napoli e poi Caserta, si trovarono di fronte alla splendida e monumentale Reggia plasmata dal genio inimitabile di Vanvitelli. Una meraviglia architettonica che stupì non poco i tecnici e i funzionari sabaudi scesi in quella landa  rozza ed inospitale. La prima cosa che fecero fu quella di stendere una relazione dettagliata su cotanta meraviglia. 

Lo "strano oggetto a forma di chitarra", il bidet, nella Reggia di Caserta,  è composto da un catino in metallo appoggiato su una struttura di legno scuro intarsiato.
L'opera degli osservatori venuti da Torino fu così minuziosa che uno di essi, trovandosi davanti ad un semplice bidet, non sapendo cosa fosse né avendo mai visto una roba del genere, lo catalogò come “uno strano oggetto a forma di chitarra”. Altro che “facite ammuina”, saponette per bocca ed altre colossali panzane di tal guisa. Chi, nel 1860, scese nel Sud lo fece per conquistare e per colonizzare un regno e non per portare progresso o impartire lezioni di civiltà. Cosa che, d'altro canto, non era in grado di fare. Per cui smettiamola, una volta per tutte, di credere alla fata Turchina e limitiamoci, piuttosto, alla realtà dei fatti. Che fu molto più cruda e molto meno eroica di quanto ci hanno voluto far credere.

Fernando Riccardi

Sanità e ospedali a Napoli ai tempi dei Borbone di Gigi di Fiore

NAPOLI: C'è una mostra assai interessante e ben allestita, inaugurata la scorsa settimana all'ospedale Incurabili di Napoli. Resterà aperta fino a luglio. E' una rassegna, con strumenti medici d'epoca, documenti e libri, sulla sanità del periodo borbonico. Come funzionavano gli ospedali, chi erano i medici, come si curavano i pazienti.

la locandina dell'interessantissima mostra

Un'iniziativa assai opportuna, voluta dal professore Gennaro Rispoli che ormai da anni si dedica, insieme con un nutrito gruppo di suoi colleghi e collaboratori, alla riscoperta storica della professione medica a Napoli e nell'intero Mezzogiorno. Un frammento di storia, settoriale, ma assai utile per fornire ulteriori strumenti interpretativi su come camminava la società di allora. Un mosaico ulteriore per dare altri contorni al tutto. 

Erano altri tempi, certo. La sanità e gli ospedali nascevano con donazioni, soprattutto di natura religiosa, atti di beneficenza di famiglie nobiliari che in quel modo speravano di conquistarsi una fetta di Paradiso. E per questo molte di quelle strutture sorgevano in antichi conventi. Dal periodo del vicereame fiorirono le strutture ospedaliere nel centro storico cittadino. Tante funzionano ancora e sono tuttora visibili e visitabili, trasmettendo un eccezionale potere evocativo da monumenti storici.

la lapide che commemora un "primato" dell'Ospedale de gli Incurabili

il bellissimo scalone

l'edificio dove si trova la splendida farmacia

Qualche nome: Incurabili, Pellegrini, ospedale della Pace, Ascalesi, Elena d'Aosta. Fu la città di medici innovatori e sperimentatori come Domenico Cotugno, Domenico Cirillo, Antonio Sementini, Michele Sarcone prima e poi: Camillo De Meis, Pietro Ramaglia, Francesco Semmola, Vincenzo Lanza, Ferdinando Palasciano. Cultura illuministica, appoggio della Corte, apertura alle innovazioni. Nel campo medico, Napoli camminava veloce.

Venivano da Londra i medici per capire come i loro colleghi degli Incurabili operavano nel settore dell'ostetricia e dell'urologia. Qui si impiantarono i primi cateteri, si sperimentarono le prime macchine elettriche per le analisi, si faceva scuole per le tecniche medico legali nelle autopsie. Tra i sovrani dell'epoca, fu Ferdinando IV di Borbone a credere per primo alla validità della vaccinazione anti vaiolo. Fu il Re, con la regina Maria Carolina, a dare l'esempio facendosi vaccinare. Oggi si direbbe, "ci mise la faccia" per convincere i riottosi che non c'era pericolo.

In 18 anni, nelle Due Sicilie i vaccinati furono due milioni. Nel regno, gli ospedali centrali divennero 80. Agli Incurabili, c'erano sezioni maschili e femminili, con medici che seguivano le stanze da due file di letti e infermieri. Tre cliniche: Ostetricia, Chirurgica, Oftalmica più la "grande e sontuosa Farmacia", come si scriveva nel 1824, nelle onoranze funebri per Domenico Cotugno.

Le LL.AA.RR. il Principe Carlo e la Principessa Beatrice

S.A.R. la principessa Beatrice mentre si avvia a visitare la "Farmacia"

Nello stesso testo si precisava che agli Incurabili si ricevevano "tutti gli infermi civili" tranne quelli con febbri acute, i maschi colpiti da lesioni violente, le "prostitute affette da mal venereo". Naturalmente, per questi tipi di pazienti esistevano altri ospedali cittadini pronti ad accoglierli.

Proprio come oggi, nella differenza tra sanità pubblica e privata a pagamento, si spiegava che "v'è benanche un locale a parte pei malati a pagamento". Anche allora le sale per i malati erano chiamate corsie con due ordini di letto, una a destra e l'altra a sinistra. Per pazienti con tisi e scabbia, sale a parte. Un medico e un chirurgo assisteva i ricoverati.

S.A.R. il Principe Carlo e la Principessa Beatrice

Fino al 1812, agli Incurabili erano assistiti anche "i pazzi". Poi nacque lo stabilimento di Aversa, che funziona ancora. E il personale? C'erano 23 medici e 18 chirurghi che giravano per le corsie una volta al giorno. I medici venivano assunti per concorso, dopo la laurea, attestato che portava in calce la firma del re. Quando Napoli divenne parte del regno d'Italia, quei medici dovettero farsi riconoscere la loro laurea sostenendo un altro esame. Lo richiedeva il nuovo regno. Un'umiliazione, ma si sa, per la storia come per la vita, gli esami non finiscono mai.

Gigi di Fiore

domenica 13 aprile 2014

Nata con un vizio di origine l'Italia si sta frantumando

di Fernando Riccardi


Troppo presi dai giochi di palazzo ai quali la politica ci ha ormai abituati, quasi non ci accorgiamo che l'Italia si sta spappolando, sta crollando rovinosamente, in una parola sta perdendo la sua compattezza. Ammesso poi che essa sia mai stata unita per davvero. Il recente plebiscito che ha chiamato ad esprimersi più di 2 milioni di cittadini del Veneto i quali, con una maggioranza bulgara (l'89%), hanno dichiarato di volersi affrancare dallo stato italiano fin troppo rapace e patrigno, è soltanto l'ultimo atto di un processo di sfaldamento che, prima o poi, interesserà altri pezzi della nazione.



E non è poi così importante sapere chi per primo tra Trentino, Friuli, Lombardia, Toscana, Sardegna o Sicilia, si incamminerà sulla strada che conduce alla autonomia da un Stato che non è più tale. Il Veneto, in tal senso, potrebbe aver acceso la miccia indicando il percorso da seguire, avendo sempre come irrinunciabile stella polare il principio dell'autodeterminazione dei popoli. Principio che sancisce il diritto di un popolo di poter scegliere in maniera autonoma il proprio ordinamento statuale e politico. E stiamo parlando, si badi bene, non di una pratica antidemocratica ma di una norma di diritto internazionale che produce effetti giuridici in tutti gli stati, ivi compreso l'ordinamento italiano. Ma non è proprio di questo che vogliamo parlare. Né degli effetti concreti che produrrà nel paese il plebiscito veneto. Anche se la reazione immediata e scomposta della magistratura la dice lunga sui timori che regnano in alto loco dove, in ossequio alla sempiterna logica gattopardesca, tutto si manovra affinchè niente possa cambiare. Invece, scavando un po' più all'interno del problema, la domanda che vogliamo porre è la seguente: perché tanti pezzi d'Italia vogliono affrancarsi dallo stato nazionale?  Venti anni fa era solo la Lega a parlare di secessione, di allontanare il Lombardo-Veneto, cuore pulsante dell'economia nazionale, da “Roma ladrona”. E per questo fu più facile spegnere il fuoco che pure bruciava impetuoso. 



Quando poi gli esponenti leghisti rimasero invischiati nelle subdole pastoie governative e parlamentari (ricordate come Bossi era corteggiato, alla stregua di una bella donna, sia da destra che da sinistra?), i toni fatalmente si stemperarono e si passò dalla secessione al federalismo. Ora, però, la situazione è diversa e le spinte autonomiste, alimentate vigorosamente dal malcontento e dalla disperazione, sono variegate e provengono da più parti e da diverse latitudini. A dimostrazione che più di qualcosa non regge più. Oggi è lo Stato unitario che viene messo pesantemente in discussione e siccome, Renzi o non Renzi, nessuno crede più nei miracoli, si va alla ricerca di altre ricette, tra cui quelle dirompenti legate all'identità ed all'autonomia. Proprio il messaggio forte e chiaro che scaturisce da quel plebiscito veneto che non è la subdola messa in scena orchestrata nell'ottobre del 1860 da Cavour e dai suoi sodali per legittimare, con un voto palesemente taroccato, l'aggessione “manu militari” al meridione della Penisola, ma un qualcosa di tremendamente serio che i distratti osservatori dei giorni nostri farebbero bene a non sottovalutare. E, a proposito di storia, non si può dimenticare il modo, a dir poco antidemocratico, con cui si raggiunse la cosiddetta “unità d'Italia”. Garibaldi prima e i Savoia subito dopo, non ci pensarono su due volte a costringere sotto uno stesso tetto regioni e popoli che da sempre avevano goduto di una ampia e totale autonomia. E lo fecero usando la forza devastante delle armi e i metodi brutali dei colonizzatori. Altro che anelito insopprimibile di fratellanza... Sapete poi come, nel 1866, il Veneto entrò a far parte dell'Italia? Finita la cosiddetta III guerra di indipendenza, l'Italia, alleata con la Prussia contro l'eterna nemica Austria, non era riuscita a cavare con le operazioni militari un ragno dal buco. Anzi, ad onor del vero, aveva subito una disastrosa sconfitta navale in quel di Lissa (20 luglio).  


Per fortuna qualche giorno prima, a Sadowa, in Boemia, i prussiani avevano sconfitto nettamente gli austriaci che si videro costretti a chiedere un armistizio (26 luglio). Radunatosi il tavolo delle trattative l'Austria pensò bene di cedere il Veneto a Napoleone III di Francia e non all'Italia. Soltanto il 19 ottobre, a Venezia, la vicenda vedeva la sua conclusione con la Francia che impose un curioso escamotage: il Veneto, prima di passare all'Italia, sarebbe stato consegnato a tre notabili locali. E così, in una anonima stanza dell'Albergo Europa, il generale austriaco Moering firmò la cessione del Veneto al commissario francese. Trenta minuti dopo i francesi passavano il Veneto ai nobili Gaspari, Giustiniani-Recanati e Emi-Kelder. Quest'ultimo, costretto a letto da una malattia, firmò il documento in una camera dell'Albergo Baviera. Quindi, in rapida successione, i notabili cedevano il Veneto all'Italia. E così tutto fu compiuto. L'antica terra della gloriosa Repubblica di San Marco diventava definitivamente italiana. Così laconicamente annunciava la “Gazzetta di Venezia”: “Questa mattina, in una camera dell'albergo Europa, si è fatta la cessione del Veneto”. Il 21 e 22 ottobre si tenne la solita “farsa” del plebiscito con il quale si chiamavano i veneti a pronunciarsi sull'annessione all'Italia. La solita efficiente organizzazione sabauda, molto più abile negli intrallazzi politici che sul campo di battaglia, preparò le cose per bene enfatizzando la ferma volontà della gente del posto ad abbracciare la bandiera tricolore. Cosa, di fatto, inesistente. Il risultato comunque fu schiacciante: 641.757 si, 69 no e 366 schede nulle, pari ad una percentuale del 99%. Ora è curioso il fatto che  dopo 148 anni si è tenuto un altro plebiscito che, questa volta, ha dato un risultato diametralmente opposto sancendo la volontà dei veneti di tornare con il Leone di San Marco. E' questo l'inizio di un inarrestabile processo di disgregazione che, prima o poi, interesserà altri pezzi importanti del nostro paese? Difficile dirlo. Certo è, però, che dopo 150 anni o giù di lì, iniziano a venire fuori tutte le crepe di una architettura statale mal congegnata e nata all'insegna della violenza e della sopraffazione. Un vizio di origine che non è mai stato sanato e di cui oggi continuiamo a pagare le nefaste conseguenze. E allora cosa si fa? Niente altro che aspettare il prossimo rigurgito di autonomia. E poi un altro ancora. Fino a quando il tutto si frantumerà rumorosamente in tanti pezzi, grandi o piccoli che siano. D'altro canto, come era solito dire l'arguto filosofo napoletano Giovanbattista Vico,“historia se repetita”.



mercoledì 9 aprile 2014

La risposta a Galasso che ilCorriere (ovviamente) non pubblica


La risposta a Galasso che ilCorriere (ovviamente) non pubblica

Di seguito proponiamo lo scaltro articoletto apparso sul Corriere del Mezzogiorno del 6 aprile 2014 e la risposta del direttore de L'Alfiere Edoardo Vitale



Giuseppe Galasso

Ed ecco la risposta non pubblicata dal "Corriere"
 
Egregio Direttore,
l’offensiva negazionista sulla storia del Sud è da tempo scattata. Uno stuolo di guastatori, quasi tutti neofiti del settore, si lanciano goffamente all’attacco di alcuni presunti caposaldi della storiografia revisionista. Allo squillo di esili trombette risponde pomposa la fanfara mediatica, con interpello di polemisti spesso solo apparentemente contrapposti, perché a difesa della parte revisionista vengono per lo più chiamati, secondo uno stratagemma vecchio come il cucco, personaggi inattendibili o folkloristici che indirettamente finiscono per avvantaggiare i sostenitori dell’ammuffito dogma risorgimentale.
I pezzi grossi intervengono a sostegno, profittando del polverone creato dai guastatori (e da certi loro sprovveduti contraddittori!), per cercare di assestare qualche fendente retorico e di screditare in toto quanti hanno fatto emergere, sulla storia del Sud, una verità ben diversa da quella di comodo che altri, imperterriti, hanno colpevolmente avallato.
Un piccolo, ma illuminante saggio di questa tattica ce lo offre Giuseppe Galasso con il suo ineffabile intervento sul Corriere del Mezzogiorno del 6 aprile 2014, introdotto dal titolo, cinico e grottesco, I sudisti e il cranio di Villela. Esso si segnala per la capziosa tecnica persuasiva e gli espedienti dialettici cui il blasonato storico liberale non esita a ricorrere per sminuire e mettere alla berlina quella presa di coscienza che rischia di travolgere quasi 154 anni di menzogne convenzionali.
L’esordio è tutto per l’antropologa calabrese trapiantata a Padova, che ha profuso il suo “sagace studio” al fine di stabilire se Giuseppe Villela, il cui teschio è conservato nel Museo Lombroso di Torino, fosse un combattente o un delinquente comune, concludendo per la seconda ipotesi: era “un povero ladro”, ha dichiarato a La Stampa, proclamando di aver voluto difendere “il Museo Lombroso e l'operato dell'Università di Torino, entrambi accusati assurdamente di avallare teorie razzistiche” .

il dr. Edoardo Vitale, editore de "l'Alfiere", storica rivista fondata nel lontano 1960 dall'avv. Silvio Vitale

Da biasimare con fermezza ogni illecita intemperanza nei confronti dell’autrice dell’“agile volume”, pubblicato in una collana diretta dal noto Alessandro Barbero (dei cui metodi storiografici si è già occupato il n. 61 de L’Alfiere), ma  non si può fare a meno di rilevare quanto sia singolare lo zelo con cui certi intellettuali, per decenni impassibili come mummie di fronte ai colossali disastri, ancora in gran parte da svelare, di una rapace invasione mascherata da liberazione, si straccino le vesti dinanzi a qualche eccesso, vero o presunto, della libera ricerca storica.
Ora è Galasso, accorrendo dalle retrovie, a portare il suo contributo addirittura alla difesa di Lombroso. Lo fa, però, cominciando con una trovata puerile che non accresce certo il suo prestigio. Sceglie un frammento di prosa invasata, che ritiene possa gettare ridicolo sullo schieramento “borbonico”, guardandosi bene dal citarne l’autore, per evitare di ricevere smentite, e la eleva a emblema dell’avverso modo di interpretare la storia recente. Eh no, don Giuseppe, così non vale…
Ma dopo questa tirata che non conta nulla, duetta con la Milicianella spericolata protezione di Lombroso, “il cui razzismo … rientra nella cultura del Positivismo europeo, senz’alcun senso antimeridionale, voluto o no”. Ma, abbia pazienza, Giuseppe Galasso, per qualificare Marco Ezechia Lombroso detto Cesare come razzista non basta sapere quello che lei stesso ammette, ossia che questo emerito veronese rastrellava e catalogava i crani (anche) dei meridionali traendone conclusioni circa presunte inclinazioni delinquenziali dei medesimi e che dalle sue ricerche è nata la teoria secondo la quale essi appartenevano a una razza inferiore? Lei trova davvero rilevante sapere se egli nutrisse sentimenti ostili agli uomini del Sud, come la stragrande maggioranza degli artefici dell’invasione del Mezzogiorno oppure si limitasse a provare una sensazione di tranquilla superiorità verso gli sventurati abitanti della Bassa Italia? Non scherzi, almeno quando parla di morti.
Altro argomento insignificante sta nell’invocare l’origine meridionale di personaggi solidali o indulgenti con Lombroso. Tutte le colonie, anche quelle “interne”,  sono state edificate con l’ausilio, avventato o calcolato, ingenuo o astuto, di collaborazionisti, non pochi dei quali, nel caso delle Due Sicilie, ebbero un sussulto di tardiva resipiscenza, laddove altri sull’oppressione del proprio popolo prosperarono e prosperano. Quindi, Galasso, non invochi a sostegno di un’opinione l’origine geografica di chi la sostiene, anche perché, altrimenti potremmo sommergerla con infinite citazioni di provenienza boreale.
Ma quello che proprio è inaccettabile, in questo “agile” pezzo giornalistico, è quanto non vi è scritto. Dopo aver sparso discutibile ironia, al ritmo di una logica claudicante e all’insegna di un’affettata supponenza, Giuseppe Galasso trascura il dato più eclatante della materia trattata: l’esistenza, in un “museo” piemontese, di resti umani esposti al pubblico come reperti animali. Egli non se ne indigna, e anzi difende l’istituzione di Torino. Non possiamo che prenderne atto. Meridionale anche lui? Abbiamo detto che ciò non prova nulla.
Ben sappiamo che la storiografia conformista vorrebbe relegare le sofferenze del Sud in un ideale, grande Museo Lombroso, sotto la formalina dell’irreversibile, consumata ingiustizia. Ma l’attualità di quelle sofferenze, perpetuatesi anche grazie alla connivenza di chi ha cercato di chiudere le finestre a ogni vento di verità, ci impedisce di condividere questo auspicio. E pur rivendicando quell’obiettività che può abbracciare solo chi la verità non la teme, proclamiamo il diritto sacrosanto di ricordare le vittime misconosciute e calunniate di quegli eventi e di operare perché il nostro popolo torni artefice del suo destino.
                                                                                               Cordialmente
                                                                               Edoardo Vitale, direttore de L’Alfiere



Per saperne di più su l'Alfiere:
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martedì 1 aprile 2014

Viva 'o Rre!!!!


NAPOLI: Dopo il successo della prima serata, torna il secondo appuntamento che propone un'imperdibile spettacolo portato in scena da Gennaro Di Colandrea e Michele Schiano di Cola. Non mancheranno scambio di opinioni sui fatti accaduti tra un bicchiere di vino, qualche assaggio gastronomico e, infine, il caffè. 


Nella serata verrà presentata anche la neonata associazione AS.CO.MER. che, come primo atto concreto, darà l'occasione di acquistare il biglietto del concerto di Eddy Napoli e Francesca Schiavo al prezzo di 18,00 euro anzichè 25. Vi aspettiamo ma vi raccomandiamo di confermare la presenza poichè i posti sono davvero limitatissimi.




Il cielo