lunedì 3 ottobre 2011

VERSO CAPUA/2: Prima della battaglia del Volturno

Una rappresentazione dello scontro all'acquedotto Carolino a Valle di Maddaloni

CASERTA - Diversi sono gli aspetti da prendere in considerazione per meglio comprendere con quale spirito e in quale condizione quel che rimaneva dell’esercito duo siciliano, poco più di 40mila uomini, giunse a combattere la battaglia del Volturno ed è opportuno delinearne le principali problematiche per meglio comprendere quanto cruciale fosse l’appuntamento bellico tra le due forze contrapposte. 

Il caos “interno” 
A giocare un ruolo fondamentale nella caduta del Regno delle Due Sicilie e a determinare la confusione che regnava tra il Garigliano e il Volturno, dove si era radunato l’esercito duo siciliano, furono la crisi delle istituzioni che imperava nei quadri dirigenti dello Stato, civili e militari, i conflitti e le tensioni sociali, la corruttibilità di numerosi esponenti dell’amministrazione pubblica e, elemento grave ma troppo spesso poco evidenziato, i conflitti in seno alla Corte e alla stessa famiglia Reale. Sotto parecchi aspetti nel triennio 1859 – 1861 esplosero, nel Regno delle Due Sicilie, privato improvvisamente dell’autorevolezza di un sovrano capace e di lunga esperienza, tutta una serie di conflitti sociali e “culturali” che trovano le loro radici nell’epoca della Restaurazione post napoleonica. Per decisione del Congresso di Vienna le corone di Napoli e Sicilia furono unificate in quella delle Due Sicilie. L’aspetto più grave di quella decisione, che si sarebbe manifestata in tutta la sua violenza nel 1848 e, di nuovo, poco prima e durante l’invasione garibaldina, fu quella di eliminare la gran parte delle autonomie dell’isola. L’abolizione della corona di Sicilia, la degradazione di Palermo da capitale a Municipio capoluogo di Provincia e lo scioglimento del Parlamento siciliano, crearono un diffuso malcontento rendendo l’isola una vera e propria polveriera pronta ad esplodere. Tutto quello che la Sicilia aveva vissuto nei dieci anni del dominio francese a Napoli, sparì in pochi mesi lasciando l’amaro in bocca a quanti avevano accolto con favore, rispetto e gioia l’esilio della Famiglia Reale a Palermo privata dei domini continentali. L’epoca francese, in particolare il Governo di Gioacchino Murat aveva depositato nel Regno altri semi negativi. I maggiori problemi che l’epoca napoleonica, giunta al termine con la fucilazione a Pizzo dell’usurpatore, lasciava alle Due Sicilie erano due. Il primo, fu quello della diffusione della massoneria e delle logge segrete che prosperarono in entrambe le parti del Regno creando tensioni gravissime tra quelle che si ispiravano al sistema francese (arrivate nel Sud sulla punta delle baionette di Napoleone) e quelle che, invece, si rifacevano e dipendevano dalla Gran Loggia di Londra (il cui governo aveva sostenuto i Borbone in chiave antinapoleonica). La restaurazione non risolse né questo, né il secondo, più grave, problema che era quello del nascente contrasto sociale. Come già avvenuto in Francia il regime napoleonico e, di riflesso, quello murattiano, appoggiava la propria autorità e favoriva in ogni modo possibile, la classe borghese che stava conquistando spazi sempre maggiori all’interno delle amministrazioni statali a scapito del potere della monarchia. La politica dell’amalgama, vale a dire dell’accettazione e del perdono concesso agli elementi dichiaratamente murattiani, propugnata e applicata da Ferdinando I, permise a numerosi traditori e massoni di restare ai posti di comando, circostanza che in molti casi favorì nuovi intrighi, nuovi tradimenti e nuove cospirazioni contro il Re. Questo doppio filone di elementi giunse ad esplodere proprio all’indomani della morte di Ferdinando II che per trent’anni aveva retto lo stato napoletano ribaltando l’eredità murattiana. La tutela della popolazione a scapito dei grandi proprietari fu una priorità del governo duo siciliano, obiettivo che si cercava di raggiungere grazie a strumenti legislativi quali il mantenimento degli usi civici, la nascita di monti pecuniari e frumentari e i progetti di bonifica e redistribuzione delle terre. Questi furono i mezzi con i quali si tutelarono le masse popolari dall’avidità famelica dei ricchi e spregiudicati “galantuomini” che, in più di una occasione, agirono come veri e propri usurai e profittatori. Quando Ferdinando II morì e il giovane e inesperto figlio ascese al trono la tenaglia internazionale già si stava stringendo attorno al collo del Regno e proprio i borghesi, nemici giurati della monarchia borbonica, cominciarono a guardarsi intorno e a sostenere i progetti del Piemonte e della Gran Bretagna. La grande questione dell’eredità massonica del periodo napoleonico si rifletté anche in una instabilità della corte che si divideva in conservatori, che riconoscevano la loro guida nella figura di Ferdinando II e, alla sua morte, in quella della sua seconda moglie, Maria Teresa più che in quella di Francesco II, e liberali, che sostenevano la necessità di una serie di riforme atte a favorire la costituzionalizzazione delle Due Sicilie e la cessione di parte del potere e dell’autorità alle classi borghesi nell’ottica di una progressiva modernizzazione dello Stato. Intorno al 1859 all’interno della fazione liberale cominciò a prevalere "l’opzione piemontese". Le incertezze di Francesco II e il timore di una controrivoluzione ispirata da Maria Teresa e dai ministri reazionari che avrebbe portato sul trono il primo dei suoi figli e compromesso il progetto di riscossa borghese, portarono numerosi esponenti della corte a “riflettere” sulle opportunità di profitto e potere che sarebbero giunte da una conquista sabauda. Le due fazioni divisero anche la Famiglia Reale contribuendo a complicare la già precaria situazione di Francesco II. Il Re non poteva fidarsi fino in fondo della Regina Madre e nemmeno dei suoi fratelli (a torto, poiché sia Luigi conte di Trani che Alfonso di Caserta, furono tra i più fedeli nei successivi momenti di difficoltà). Senza considerare i fratelli di suo Padre, i quali cospiravano apertamente con i piemontesi. Come ricorda Gleijeses: “eliminando il conte di Siracusa, non ci si poteva fidare né del conte d’Aquila né del fratello minore conte di Trani che non era da considerarsi uomo di seri principi. Lo zio, conte di Trapani, era ancora più debole del Sovrano […] Purtroppo Francesco II era contornato da traditori e da generali imbelli; nell’ambito della sua stessa fasmiglia i conti di Siracusa, di Trapani e d’Aquila erano nettamente filo piemontesi e non ne facevano un mistero”. Altra questione da non sottovalutare era quella, anch’essa risalente ai decenni precedenti, sulla preparazione della classe dirigente napoletana. Ferdinando II nei primi anni di regno venne considerato un sovrano moderno anche dal partito liberale. Numerosi furono i governi guidati o con all’interno ministri di estrazione borghese e liberale. La stessa composizione e titolazione dei ministeri rispecchiava questa apertura. La rivoluzione, ingiustificata e violenta, del 1848 portò ad un progressivo cambio di rotta e ad un irrigidimento del Sovrano. I Ministri divennero Segretari di Stato, nella maggior parte dei casi senza portafoglio e si ebbe un fenomeno di accentramento. Il Re, scosso dalla rivolta e senza fiducia verso i liberali e i borghesi, limitò al massimo ed impedì l’accesso alle alte cariche dello stato, Governo ed Esercito, di nuovi elementi preferendo affidarsi a personaggi fidati e fedeli alla monarchia anche se non sempre adeguatamente preparati. Alla sua morte, Francesco II si trovò ad essere un Re giovanissimo circondato da ministri, Generali e Ufficiali di età superiore ai 55 anni, molti sopra i 70, impossibilitati, dunque, a dare risposte efficaci alle nuove crisi che si ponevano innanzi al Regno delle Due Sicilie. 

La grande cospirazione 
Mentre i problemi interni alla società, alla corte e alla Famiglia Reale strisciavano e si trascinavano insoluti (e forse insolubili senza una presa di posizione forte) il contesto internazionale dal 1850 aveva ripreso a ruotare a incredibile velocità. La fine del Governo Orleans in Francia aveva fatto spazio al Secondo Impero Napoleonico, la rivoluzione del 1848 aveva scosso e indebolito la tradizionale linea conservatrice – autocratica dell’Impero Asburgico e il giovane Francesco Giuseppe si trovava costretto a subire le pressioni del parlamento, dei liberali, delle minoranze etniche e sociali del suo enorme Impero. L’unica ad aver tratto giovamento, nell’Europa post rivoluzionaria, fu la Gran Bretagna che si preparava ad assestare il colpo definitivo all’Europa conservatrice cercando di indebolirne la colonna portante: la Russia di Nicola I. Lo Zar era stato, proprio nel 1848, il principale artefice della salvezza asburgica. Col suo intervento in Ungheria aveva permesso a Francesco Giuseppe, in un mirabolante effetto a catena, di riottenere il controllo sul Lombardo – Veneto e sulla Boemia in rivolta, di bloccare e distruggere l’esercito piemontese a Novara, di sostenere la richiesta di Pio IX di tornare a Roma e reprimere la repubblica romana. Nicola I era così diventato il paladino e l’amico dell’Europa conservatrice, mantenendo ottimi rapporti con Ferdinando II. Profittando della crisi dei Principati Danubiani la Gran Bretagna, dove avevano preso il sopravvento i liberali di Lord Palmerston, esponente di primissimo piano della massoneria europea, aveva già messo in mare 200 vascelli e preparato migliaia di uomini alla partenza verso la Crimea. Riuscì, Palmerston, a convogliare anche le forze francesi in quella vera e propria spedizione punitiva contro l’Impero Russo. Il Regno di Sardegna, tradizionale alleato della Russia, cambiò rapidamente orientamento e, tradendo l’amicizia tra i Sovrani, decise di partecipare alla spedizione con 30mila uomini. La Crimea fu un vero e proprio massacro a causa delle condizioni igienico - sanitarie e delle operazioni belliche. Il risultato fu quello di partecipare al Congresso di Parigi del 1856 che si trasformò nella sede per denunciare il Regno delle Due Sicilie e il suo Sovrano Ferdinando II. Falsità politiche, scorrettezza diplomatica e arroganza colonial- imperialista scandirono quelle giornate mentre, da Napoli, Ferdinando II si limitava a esercitare le sue prerogative respingendo, per mezzo dell’apparato diplomatico, le accuse sostenute dagli esuli napoletani a Torino. Il gioco di Parigi aveva però dato i suoi frutti. La neutralità Asburgica, oltre ad essere ingenerosa nei confronti della Russia, costuì un pericoloso precedente a cui Alessandro II (subentrato al padre morto durante la guerra) si sarebbe appellato nel 1860. Il fronte conservatore finì in pezzi e il nuovo Zar promise vendetta contro l’Austria, una vendetta che si sarebbe attuata col disinteresse totale dell’Impero Orientale al momento dell’esecuzione del grande complotto. Napoleone III, dal canto suo, era completamente schiavo delle prerogative inglesi e della massoneria internazionale (era stato esule a Londra e lì fu affiliato alla massoneria) tanto da sostenere il disegno piemontese anche quando Cavour ruppe senza indugio gli accordi di Plombieres violando le linee di spartizione delle tre Italie. Quando Ferdinando II morì scattò la trappola, esecutore materiale dell’assassinio del Sud sarebbe stato un massone avventuriero che aveva commesso atti leciti, e illeciti, in mezzo mondo. 

La situazione militare al 1 ottobre 
Giuseppe Garibaldi, armato e sostenuto dall’Inghilterra e dal Piemonte, era sbarcato il 10 maggio 1860 a Marsala. Lo sbarco era avvenuto con la complicità della flotta britannica che, ancorata nella rada di Marsala aveva impedito alle navi napoletane di aprire il fuoco e chiudere la partita prima ancora del suo inizio. Sarebbe da stupidi ritenere che il Re Francesco II e i suoi Ministri non conoscessero le intenzioni piemontesi e quelle inglesi. Tutti sapevano che Garibaldi era una pedina di un gioco più grande ma nessuno seppe cosa fare, poichè il gioco delle parti era segreto e il Piemonte, ufficialmente sosteneva il Borbone di Napoli. Al momento dello scontro militare gli impreparati, e forse corrotti, anziani ufficiali borbonici si ritirarono o, peggio ancora, cedettero le armi al nemico senza combattere. Sempre con la complicità britannica la Sicilia capitolò e Palermo venne abbandonata mentre l’esercito duo siciliano rientrava sul continente tentando in rare occasioni una controffensiva. Il crollo di Sicilia fu facilitato, senza dubbio alcuno, dai contrasti di cui si diceva all’inizio. Da una parte Garibaldi poteva contare sull’inerzia dell’aristocrazia baronale siciliana, rassicurata dal fatto che dietro le camice rosse ci fosse lo scudocrociato dei Savoia, dall’altro aizzava i contadini con la promessa della redistribuzione della terra e il miraggio della fine del dominio padronale. Quando non fu in grado di mantenere le promesse non si fece scrupoli di eliminare fisicamente il problema. Bronte docet. Inglesi e aristocratici potevano stare tranquilli. Tutto cambiava affinchè nulla cambiasse davvero. Nel frattempo ai contadini, che sulle prime erano accorsi ad arruolarsi per sostenere il guerrigliero, si sostituivano i contingenti armati piemontesi che, sempre più numerosi, sbarcavano sull’isola assieme a ufficiali e elementi scelti dai Savoia. Affiancare Garibaldi e assicurarsi che la causa dei Savoia avrebbe prevalso, questo l'obiettivo principale di Cavour. In Calabria la musica non cambiò. Il generale Ghio, autentico incapace e traditore, si arrese senza combattere provocando diserzioni di massa nell’esercito duo siciliano. Molti soldati, dalla Sicilia e dalla Calabria intrapresero un lunghissimo viaggio con mezzi di fortuna verso Napoli dove si attendevano gli ordini del Re. La marcia di Garibaldi, a questo punto, venne accelerata. In quindici giorni Garibaldi fu in vista della piana del Sele. A contribuire a questo caos furono gli ordini del Ministero della Guerra diretto dall’ignobile traditore Salvatore Pianell che diede l’ordine infame di far ritirare le truppe anche dalle province pugliesi e dalla Lucania, lasciandole di fatto ai rivoluzionari e impedendo una qualsiasi opposizione ai nemici. Mentre Pianell distruggeva l’esercito il conte d’Aquila, a capo della Marina napoletana assisteva ai tradimenti e alle diserzioni senza battere ciglio. In pochi giorni la flotta passò in blocco al Piemonte mentre i marinai lasciavano le navi per stringersi attorno al Re. Sicuramente afflitto dalla situazione, incapace di difendere il suo Regno e mal consigliato da Ministri e Generali, Francesco II perse l’occasione di mettersi alla testa del suo esercito per affrontare il nemico alla piana del Sele e decise di ritirarsi, in fretta e furia, dalla capitale per evitare una guerra civile. Dietro questa scelta il Ministro degli Interni, Liborio Romano, da sempre liberale che, da prigioniero politico era passato ai vertici dello Stato duo siciliano. Amico della camorra si era servito dei capintesta dei quartieri, li aveva arruolati nella Guardia Civica e aveva preso il controllo della capitale. I Lazzari non avrebbero così potuto sostenere la causa Reale. Mentre consigliava al Re una vergognosa fuga a Capua verso Gaeta, inviava i suoi emissari a Garibaldi invitandolo a fare presto e ad entrare nella capitale che, fiduciosa nei destini d’Italia, attendeva l’eroe dei due mondi. Con la tanto vituperata ferrovia borbonica, assieme a una decina di fedelissimi Garibaldi lasciò indietro il suo esercito e partì per Napoli da Salerno. Ad accoglierlo, il 6 settembre, il Ministro Romano e Tore e’Crescienzo, ovvero Salvatore De Crescenzo, mammasantissima della camorra napoletana. Le forze duo siciliane si attestavano lungo il Volturno da Capua a Gaeta. Francesco II si giocava il tutto e per tutto. Consapevole che il cugino piemontese attendeva fiducioso l’esito della battaglia, provvedeva, al rafforzamento del contingente in Abruzzo dove sarebbero entrati i piemontesi pochi giorni dopo l'episodio del Volturno. Le forze garibaldine cominciarono a fare pressione sul fronte fin dal 19 settembre tentando alcuni assalti a Capua, tutti respinti con tenacia. A Caiazzo, altro centro occupato dai garibaldini, il 21 settembre brillò la stella di Luigi conte di Trani e di Alfonso, conte di Caserta, i quali presero parte allo scontro armato che riconsegnò la città alle forze realiste. In Molise e in Abruzzo le forze fedeli al Re sostenevano la controrivoluzione mentre nelle province meridionali occupate dai rivoluzionari già montavano malcontento e protesta per le vessazioni. Il mito di Garibaldi si stava incrinando. Il Generale non era palesemente in grado di gestire una lunga guerra. Al di là del Volturno c’era il meglio dell’esercito duo siciliano. Uomini che avevano percorso centinaia di chilometri per mettersi al servizio del Re e rispettare il proprio giuramento. Gli ufficiali traditori avevano, in larga parte, lasciato i propri posti. Non ci sarebbero state né diserzioni né slealtà e proprio per questo i garibaldini sarebbero partiti svantaggiati rispetto alle circostanze passate. Il fronte, dopo la presa di Caiazzo era ben delimitato. A Capua, la colonna del Generale Tabacchi avrebbe assaltato Santa Maria Capua Vetere sostenuta da quella al comando del Maresciallo Afan De Rivera, che avrebbe attaccato a Sant’Angelo in Formis. Avrebbero chiuso la tenaglia il fronte sinistro diretto dal Tenente Colonnello Giovan Luca Von Mechel che avrebbe assaltato i garibaldini di Bixio a Maddaloni. A dirigere le operazioni il Generale Ritucci, anziano e poco avvezzo alle manovre offensive spinto all'attacco dalle pressioni del Re. Alle 3.30 di lunedì primo ottobre 1860 gli uomini di Afan de Rivera uscivano da Capua attraversando Porta Napoli. Aveva così inizio lo scontro decisivo.

Roberto Della Rocca

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