domenica 1 maggio 2011

San Gennaro s'è sfasteriat': niente miracolo al primo tentativo ma è buona la terza

Il Cardinale Sepe durante la liquefazione del sangue di San Gennaro

NAPOLI – Ormai è ufficiale. Pure San Gennaro s’è sfasteriat’ e sabato 30 aprile non ha fatto il miracolo. Quello straordinario evento (così ben descritto da Jean Noel Schifano nel libro Neapocalisse, di cui riportiamo sotto il brano che descrive una cerimonia settembrina vissuta da lui alla fine degli anni ‘70) durante il quale tutta Napoli trattiene il fiato in attesa di conoscere la buona disposizione del Santo Patrono, non si è ripetuto. Due ore di preghiere non sono bastate a convincere il Santo a mostrare la sua benevolenza verso una città che sta sprofondando sempre più nel ridicolo e nella tragedia a causa dei due massimi mali che possano colpire una comunità: la criminalità e la cattiva amministrazione. Da qui tutti i problemi di una ex capitale, offesa, umiliata e distrutta, prima di tutto dai suoi figli e, soltanto poi, dai suoi nemici che, come avvoltoi nel deserto, passano quanto il delitto è stato consumato per strappare le carni ai cadaveri. Per due ore i fedeli attendono l’evento miracoloso. Sospirano, pregano e rumoreggiano quando non possono innalzare nel cuore di Napoli il bianco fazzoletto che rassicurerebbe la città intera, i credenti e i non credenti. E non solo. Il miracolo “napoletano” è quello che si verifica il 19 settembre, giorno di San Gennaro. Il miracolo della sabato antecedente la prima domenica di maggio è un miracolo “italiano” visto che la mancata liquefazione è vissuta come segno di sventura per tutto il paese. Forse San Gennaro si è riscoperto borbonico o forse è un caso che il sangue non si sia sciolto al “primo colpo” proprio nella prima celebrazione dell’anno dei festeggiamenti unitari. Chissà! Quello che è certo e che il Santo protettore di Napoli non deve essere molto soddisfatto delle condizioni della sua città. Lo stesso Cardinale Crescenzio Sepe pochi giorni fa si era scagliato in un duro attacco gridando tre volte un “Vergogna” a chi mortifica quotidianamente Napoli e denunciando “la pericolosa deriva di una città zona franca di fronte alle legge […] Non tacciamo perché vediamo che si sta radicando una società fortemente impegnata, quasi marcata, a difendere gli interessi personali. Questa è una malattia mortale”. Non a caso ieri pomeriggio nel libello distribuito prima della cerimonia mancava il paragrafo relativo a questo assalto ai governi di Regione, Provincia e Comune. Dall’entourage del Cardinale si è fatto sapere che le frasi più dure sono state cancellate per non offendere le autorità presenti nel Duomo (il Governatore Stefano Caldoro e il Sindaco Rosa Russo Jervolino). Immediatamente Sepe ha cercato di non provocare allarme tra i presenti: “Riportiamo l’ampolla nella cappella e continueremo a pregare. Non scoraggiatevi, altre volte il sangue non si è sciolto, ma San Gennaro non ha mai fatto mancare il suo sostegno alla città”. 


Stesso tentativo lo ha fatto Rosetta “the Voice” Jervolino ma non gli è riuscito molto bene visto lo stato in cui lascia la città dopo dieci anni di permanenza a Palazzo San Giacomo (oltre che per la voce poco tranquillizzante). Di fronte al mancato miracolo sono intervenuti anche il Presidente della Corte d’Appello, Bonajuto, e il Prefetto De Martino che hanno invitato ad un maggiore impegno alla formazione dei giovani. Ma mentre i giovani si formano tutti gli altri, che fanno per la città e per il Sud?  Niente, verrebbe da dire. Poco credibile la presa di posizione delle istituzioni che hanno fatto morire Napoli, più accettabile l’invito a non scoraggiarsi del Cardinale Sepe. Infatti, alla terza esposizione dell’ampolla questa mattina della prima domenica di maggio, San Gennaro ha dimostrato tutto l’amore per il suo popolo, liquefacendo il sangue rappreso da centinaia d’anni. Ripensando ad una trasmissione tv vista pochi giorni addietro si mostrava che la criminalità organizzata ha messo le mani perfino sul pane, fatto e venduto abusivamente per le strade dei quartieri di Napoli. Uno dei “gentiluomini” senza mezzi termini ha avvisato: “A Napoli per un chilo di pane, si ammazza!”. Una frase che fa male solo a sentirla dire. San Gennaro si è indignato e alla “prima uscita” non ha concesso il miracolo. Resta solo da chiedersi, quando si indigneranno i napoletani, e con loro, tutti i meridionali?

Roberto Della Rocca




Tratto da Neapocalisse di Jean Noel Schifano, Pironti editore, 1990, pp. 34 - 42:

San Gennaro


“Il sangue? Il sangue dov’è? Non l’hanno portato il sangue?”. Una pallottolina di grasso nerovestita, con occhietti da ratto smarriti che sembra sbucata or ora dal suo buco in piena luice, pochi mozziconi di denti da conte Dracula, una scarmigliata chioma corvina, con il fiato mozzo, ci ha afferrati entrambi per il polso e ci scuote squadrandoci con quelle due biglie da ossessa, quasi gridando con voce grassa la sua sete di sangue. Ci liberiamo dalla sua morsa rassicurandola: San Gennaro non è ancora uscito fuori dalla sua nicchia; la sacra ampolla non è ancora stata incastonata nell’ostensorio. La “parente” di San Gennaro - è così che si chiamano quelle popolane che vivono nell’intimità del santo, a tu per tu con lui – può pregare in pace nell’attesa della cerimonia e del miracolo. Raggiunge altre donne, decrepite e incanutite dagli anni, altre “parenti” queste, e tutte in coro bofonchiano ad alta voce litanie propiziatorie in cui, a cadenze regolari, riecheggiano il nome del santo e la parola sangue: come se un unico polso stesse palpitando nella Cappella del Tesoro. Alle otto, in questa mattina del19 settembre siamo entrati nel Duomo e abbiamo varcato la soglia della principesca cappella ddove dimorano il busto del Santo ed il suo sangue d’un rosso vinato, sempre vivo, che si liquefa da quindici secoli, in particolare nell’anniversario del giorno (19 settembre 305) in cui a Pozzuoli gli mozzarono la testa da cui sgorgò il rosso miracolo in ebollizione. E a Pozzuoli, nella chiesa di San Gennaro alla Solfatara, il masso su cui il santo appoggiò il collo maldestramente sezionato da una spada di Diocleziano si tinge di rosa nell’attimo stesso in cui a Napoli si produce il miracolo del sangue, sulla precisa ubicazione di quel tempio di Nettuno  che poi i costruttori del Duomo fecero sparire. Piazzati davanti all’altare principale della cappella, spiaccicati dalla folla contro una barriera di banchi dove si agglutinavano grappoli religiosi in cotte di candito pizzo, siamo riusciti ad osservare, a nostro agio, i ferventi preparativi per il miracolo. Sulla nostra sinistra, la teoria schiamazzante delle “parenti”; sulla nostra destra dei Napoletani di tutte le età, di tutte le estrazioni sociali; dietro di noi una ciurma di Americane (poiché affluiscono dai cinque continenti per assistere al miracolo del sangue). Tra i “really wonderful!” d’Oltre – Atlantico che non finivano più (sospiri di un popolo vergine e puritano travolto da cascate di barocchismo indecente!) riuscivamo ad afferrare questo genere di discorsi in dialetto, scambiati da tre uomini sulla quarantina di cui uno che snocciolava il rosario: “Alcuni non ci credono mica – Vabbè però insomma San Gennaro è San Gennaro. E’ sì! E’ proprio un miracolo! … Questo sangue rappreso… che si liquefa così… Pure gli scienziati, fino a ui sono venuti per esaminarlo: e sono rimasti tutti come i fessi! Come degli allocchi! – Io (l’uomo col rosario) di sangue ne vedo tutto il santo giorno, al macello… sì sì, un buon lavoro… E perdinci! Quando è rappreso è rappreso, ve lo dico io… qui c’è davvero un miracolo… hanno un bel dire, io ci credo, bisogna crederci, qui a Napoli di miracoli ne fa tanti San Gennaro”. Su una colonna di marmo all’ingresso avevamo letto in latino, oltre che all’avviso in italiano: “E’ assolutamente vietato fotografare la cappella del tesoro” – e una decina di reporter, sotto il naso dei rappresentanti dell’ordine in tenuta da gran parata, fotografavano a più non posso perfino primi piani dei poliziotti: “A San Gennaro al cittadino redentore della patria, Napoli salvata dalla fame, dalla guerra, dalla peste e dal fuoco del Vesuvio, grazie alle virtù del suo sangue, consacra”. Non riuscivamo più a muoverci né a voltarci schiacciati com0’eravamo dai fedeli contro i banchi. Ognuno degli astanti si sentiva come un gioiello di carne incastonato ai vicini; e noi assaporavamo quel piacere mediterraneo, più prettamente napoletano, della fusione dei corpi nella folla. E’ un rito per il napoletano che si aggrega ad ogni manifestazione civile o religiosa, che predilige restare inchiodato sul posto su marciapiedi brulicanti, piuttosto che una strada libera o una traversa isolata. Durante il periodo pasquale questo rito è chiamato “struscio” e consiste nel camminare il più lentamente possibile nella calca, nello scivolare, nello strofinare i piedi senza quasi sollevarli, per incrociare sguardi languidamente, sfiorare mani, spalle, fianchi. Sono questi i dolci corteggiamenti delle primavere napoletane.


Più che i lussureggianti affreschi di Lanfranco, o quelli, ammirevoli, del Domenichino che ripercorrono gli episodi gloriosi della vita del Santo, o il notevole dipinto ad olio su rame di Ribera “San Gennaro esce illeso dal rogo di Nola”, a colpirci è la profusione di statue metalliche. Tra le colonne di broccatello, diciannove statue di santi di bronzo ma soprattutto i quarantacinque busti d’argento di tutti i santi che hanno un culto a Napoli, e che fanno una ronda gelida e conturbante nel coro, attorno all’altare con i suoi marmi policromi. Queste mummie di metallo, commissionate dal ‘600 all’ ‘800 da corporazioni di artigiani e ricchi notabili a famosi gioiellieri, non hanno niente di ieratico, anzi sembra proprio che aspettino fasci di gladioli vermigli e fiotti di luce per rinascere a nuova vita, riprendere colori e parola: per fare un’ala d’onore e incontrare cantichi in gloria del vescovo San Gennaro, che è stato appena fissato con delle viti sulla sua portantina scoperta, ai piedi dell’altare e di fronte al pubblico: ha la testa calva ed il petto nudo. Alcuni prelati e un capo sagrestano si stanno affaccendando per vestire il santo: corta pianeta, stola, mitra con una lunga coda bifide ricamata d’oro su sfondo color rubino. Gennaro ha un portamento fiero e sovrasta i fedeli in adorazione. Sopra un altro vassoio munito di stanghe, a sinistra ai piedi dell’altare e di fronte al pubblico, ora stanno avvitando l’ostensorio tempestato di angioletti volenti e aureolato da una corona floreale, il cui piede, a forma di cappella, racchiude, quasi a specchio, un piccolo busto del santo. Un personaggio in marsina nera sbarrata da una fascia di raso purpureo, con un borsone di cuoio elastico avvinto alla mano da un cordone vermiglio, incravattato all’ordine di San Gennaro, In sanguine foedus, il deputato della cappella, aspetta, come i vescovi circostanti e la folla strepitante, l’arrivo del cardinale. Difatti, come per la bomba atomica americana, per aprire il tabernacolo segreto dietro l’altare ci vogliono ben tre chiavi: quella del sagrestano, quella del deputato e quella del cardinale. Eccolo finalmente: ci si fa il segno della croce, le “parenti” cominciano a reclamare il sangue a squarciagola. Bonario, il cardinale, incorniciato dai chierichetti salmodianti con le loro larghe cotte ricamate, sfreccia dritto verso l’altare. E lì sta l’ampolla: al posto di una candida ostia nell’ostensorio è incollato il sangue, che viene esibito così, rappreso, esposto sulle pareti della boccia di vetro. Le “parenti” urlano il nome del Santo, strabuzzando gli occhi, poi si fanno minacciose ed esigono il miracolo – il sangue si sciolga e scorra. Ed eccole che si scompigliano contro il loro San Gennaro: esigono, affibbiandogli un bel “muso giallo” che si “spicci” a sanguinare. La rapidità del miracolo è promessa di gioia per Napoli; la sua lentezza, segno di una maledizione che per lunghi mesi incomberà sulla città. Issati sulle spalle di otto chierichetti, ambo i vassoi col busto del santo e col suo sangue spaccano la folla che si contorce e applaude per poi raggiungere la navata centrale, l’imponente altare del Duomo col suo stuolo di gloriosi angioletti. C’è n’è voluto del tempo per districarci dalla Cappella. Invece le vecchie “parenti” sgusciavano via come anguille di stracci neri, come ispide spire, arrivando così ai piedi dell’altare contemporaneamente al cardinale. C’era una fiumana di gente, come per l’incoronazione di un principe, e tutti tripudiavano, acclamavano, strillavano come se stesse sfilando una diva, come quando al San Carlo, Monserrat Caballé chiuse la Norma sotto cascate di bis e fiori. Organi enormi soffiavano con tutto il fiato delle canne un quattro o cinque accordi ripetuti, lancinanti. Marcia nuziale? Te Deum?, come se l’organista stesse vaticinando. Ci sollevano, ci trasportano: schiuma di un gigantesco cavallone nero che s’infrange ai piedi di una gocciolina di sangue.
E ora che cosa sta dicendo il cardinale in questo improvviso silenzio carico di speranze e di paure? Puntando contro di noi un indice accusatore, fa un sermone virulento sul sangue salvatore e sul dangue demoniaco degli aborti. Alle donne che abortiscono promette le pene dell’Inferno, e il Paradiso a chi si lascia scorrere nelle vene il sangue fortificante di San Gennaro. Il sangue del Santo ti salva, quello delle donne porta alla dannazione. Assume il tono apocalittico di una crociata vendicativa e sanguinaria in cui si spargeranno laghi di emoglobina. Poi, è l’apoteosi. Alle dieci circa, tre minuti dopo il sermone del sangue, il deputato della cappella, con i vescovi e il cardinale, scrutava la sacra ampolla, sventola all’improvviso un largo panno immacolato: segnale che scatena un pandemonio inaudito. Il Duomo comincia a tremare in un batter d’occhio; sembra che gli accordi martellanti eseguiti dagli organi facciano volteggiare le canne; la folla si sgola e si scortica le mani a furia di applausi; il batocchio delle campane batte così forte da spaccare il bronzo. E fuori, sul sagrato, scoppiano senza tregua enormi petardi imbottiti di polvere come cariche dinamitarde. Ed il tutto, come per la danza sacrale d’un antico culto pagano, è ritmato sui movimenti e sul passo cadenzato del Cardinale. Con ambo le mani, il sacerdote vestito di rosso tiene l’ampolla che fa oscillare da destra a sinistra, poi da sinistra a destra, come il pendolo massiccio di un orologio impazzito: mostrando così ai fedeli, che per veder meglio si aggrappano e si arrampicano su per le colonne dell’immensa navata, che il sangue è proprio fluido, che il miracolo si è compiuto per davvero. Ma il cardinale non resta mica immobile, impalato di fronte a quei centomila occhi, agitando il totem della tribù napoletana: scandisce l’esaltazione della folla, che batte le mani e si sfiata, sul percorso spasmodico che compie tra il fondo del coro e la prima fila delle “parenti” rubiconde, spiaccicate contro la sacra mensa. Con passo elasticissimo l’erubescente vecchietto volta le spalle alla folla, si allontana, quasi volesse svanire nel nulla con la preziosa reliquia. Ad un tratto rieccolo. Più che camminare saltella febbrilmente e con tutta la forza delle braccia sembra lanciare il sangue sopra la testa, nel cuore dell’antico tempio consacrato al dio dell’elemento umido. E’ il delirio e come una bomba umana il cuore di Napoli esplode. Così, sette volte di seguito, il sangue di San Gennaro, portato da un Sileno ebbro e volteggiante nella sua tonaca scarlatta sui primi accordi di una sanguinosa Marcia Nuziale, riconduce due milioni di uomini alle soglie di una frenesia dionisiaca, alle loro origini, ai loro riti pagani.


Il miracolo di San Gennaro (che con una minore solennità avviene anche il primo sabato di maggio) è il punto di fuoco centrale nell’alchimia del corpo di Napoli. Cogliere il suo messaggio luminoso è davvero indispensabile. Il vescovo Gennaro, santo patrono di Napoli, è oggetto di un culto quasi esclusivo dei Napoletani. Annoverare tutto ciò che porta il suo nome è impossibile: prima di tutto è il nome (a volte il patronimico) più diffuso, con quel melodioso vezzeggiativo che è urlato, agli angoli delle strade: “Gennariello” o “Gennariè”. Inoltre, nella città stessa, ben undici strade, piazze o passaggi celebrano San Gennaro. Esiste una Porta San Gennaro di fronte al Rione Stella, a via Foria; e in Piazza Riario Sforza sorge il più bell’obelisco di San Gennaro della città disegnato da Cosimo Fanzago, ombreggiato dalla cupola di San Gennaro. Infine, dal barbiere al pasticciere, passando per scuola guida, l’insegna del santo incornicia come un’aureola svariatissimi negozi. Il suo sangue fa dimenticare quello della sua oscure rivale Santa Patrizia, che si liquefa nello stesso modo identico il 26 agosto di ogni anno, nella chiesa di San Gregorio Armeno. Circa diciannove anni fa, il cardinale Ursi, uno dei “papabili” alle elezioni vaticane, sbarcò col titolo di arcivescovo della città e ben presto corse voce che questo principe della chiesa volesse sradicare da Napoli la zizzania della superstizione e, tra le altre erbacce, proprio quella ridicola faccenda del sangue… Quel povero disgraziato per poco non finì sradicato lui stesso! I napoletani lo convertirono suo malgrado ai loro riti sacri che il cardinale praticò con esaltazione.

Parenti "moderne"

Ogni cosa è segno a Napoli: cosa vorrà mai mostrarci il miracolo di San Gennaro? Uomo per il suo sesso, donna per il sangue che scorre ad intervalli regolari, adorato per questo suo stato ambiguo e miracoloso, essere uomo e donna contemporaneamente, San Gennaro è per eccellenza il santo dell’androginia. Rivale delle “parenti” che lo strapazzano e lo provocano, quando il sangue è “duro” e tarda a liquefarsi lanciano i primi insulti: “Insomma faccia gialla lo fai o non lo fai!”, perché sanguini anche lui come pure loro sanguinarono; sogno degli uomini che, immedesimandosi con lui, perdono i loro limiti, il ruolo assegnato loro dalla società, e spiccano il volo come angeli del quotidiano sulle ali del loro più profondo desiderio: godere in pieno dei due sessi che si portano dentro. A Napoli, il 19 settembre, i Napoletani festeggiano la perdita liberatrice della loro identità sessuale, vivono euforicamente la loro struggente nostalgia di un mondo da cui siano abolite le differenze. Se l’Impero romano tagliò la testa di Gennaro, la Chiesa cattolica ha amputato il santo all’altezza del busto, troncandogli il sesso, come ai suoi quarantacinque accoliti. Così castrato, San Gennaro celebra la sua mutilazione in semestrui femminili scarlatti annunciati dal panno bianco che il febbrile deputato fasciato di rosso agita con la punta delle dita, magnificati dalla città intera. Festa dell’uomo dalla ferita salvatrice (e come non dimenticare il sangue di Patrizia, che non ha niente di straordinario?), desiderio sfrenato di vivere come uomo e come donna a un tempo, transessualità- Guardalo raffigurato in effige un po’ ovunque in città. Questa volta è in piedi, appoggiato al bastone da mandriano, giovane, con gli occhi a mandorla, il viso ovale, i lineamenti fini. Graziosamente dinoccolato, somiglia a un pastorello greco. O divina Provvidenza per tutti coloro che, non dimentichi della loro natura femminile, se la godono. Gennaro, il primo “femme niello”, un uomo che predilige la compagnia delle donne, si veste e si comporta da donna e si sceglie, liberamente e ben accetto da tutti, con un nuovo nome femminile, la sua nuova natura. Questo primo “femminiello” napoletano si recò al martirio accompagnato da due dei suoi amici: uno si chiamava Festa e l’altro Desiderio. E tutti e tre insieme avrebbero dato il “la” della luce al formidabile “alleluia” del sangue.

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