lunedì 23 giugno 2014

Lo scandalo della Banca Romana

di Fernando Riccardi


La crisi che sta attraversando il mondo della finanza è attestata a chiare note dai ricorrenti scandali che stanno caratterizzando, a qualsiasi latitudine, le istituzioni bancarie. Gli esempi da fare sono numerosissimi: basti pensare, tanto per restare nel nostro bel paese, alla violenta bufera che ha investito il gruppo MPS (Monte dei Paschi di Siena) 
La "Banca Romana“ dei nostri giorni, Ma con più santi in paradiso per cui lo "scandalo" si è "un po'" addormentato

oppure, più di recente, la Carige, con l'ex presidente finito in carcere con le gravissime accuse di truffa e riciclaggio ai danni dell'istituto. Ma quella degli “scandali bancari” non è un qualcosa venuto alla luce di recente. E', invece, un fenomeno antico che affonda le sue radici indietro nel tempo. Basti pensare che un primo clamoroso esempio risale al declinare del XIX secolo, appena una trentina di anni dopo il faticoso raggiungimento dell'unità nazionale. Ed è lo scandalo della Banca Romana. Ho pensato di estrapolare dalle nebbie indistinte del passato questa particolare vicenda specie perché essa presenta una straordinaria analogia con quanto sta accadendo oggi giorno nel sempre più disastrato e corrotto pianeta finanziario finito nelle mani di speculatori avidi e criminali. Alla fine dell'800 nell'Italia dei Savoia erano ancora sei gli istituti che avevano facoltà di emettere moneta: la Banca Nazionale di Torino, il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia, la Banca Nazionale Toscana, la Banca Toscana di Credito e, infine, la Banca Romana che poi era la vecchia banca dello Stato Pontificio. E già questo la dice lunga sulla confusione che regnava in quel particolare settore. Ma concentriamoci, in particolar modo, sulla Banca Romana. 


Nell'estate del 1871 la capitale d'Italia si spostò da Firenze a Roma, il che provocò una impetuosa “febbre edilizia”. Tutti a Roma, sentendo odore di affari, si misero a costruire pensando ad una notevole espansione del perimetro urbano che poi, in effetti, si concretizzò in misura marginale. I prezzi delle aree edificabili salirono alle stelle e diventarono particolarmente appetibili. La capitale ben presto si trasformò in un gigantesco cantiere edile. Nell'impresa, naturalmente, si gettarono anche chi non aveva disponibilità economiche tali da portare a termine i lavori senza difficoltà alcuna. E così moltissimi impresari dovettero ricorrere ai prestiti generosi e a lungo termine concessi con disinvoltura dalla Banca Romana. Le prospettive di guadagno, infatti, erano così allettanti che i funzionari largheggiarono nelle concessioni di denaro in prestito, senza stare troppo a sindacare sulle coperture e, soprattutto, sulle garanzie, come si dovrebbe fare normalmente. Già dopo qualche anno, però, si iniziò a comprendere che a Roma il boom economico così tanto vagheggiato non ci sarebbe stato. A complicare il tutto, poi, era giunta la grave depressione mondiale del 1887-1888 che aveva ancor di più mortificato il settore economico. Per cui chi aveva investito nel settore edilizio si ritrovò con una montagna di debiti da saldare e con pochissime speranze di risollevare la sua situazione. Sull'altro versante, invece, le banche furono sommerse da una montagna di cambiali, che valevano quanto la carta straccia: molti di quei soldi dati in prestito, infatti, non sarebbero mai rientrati.
il Corriere della Sera con la notizia dell'arresto del governatore e del cassiere
La Banca Romana si ritrovò ben presto in grandissime difficoltà a causa delle enormi somme di denaro investite nel settore edilizio, operazione che si rivelò del tutto fallimentare. Nel 1889 Luigi Miceli, ministro del governo Crispi, dispose un'inchiesta su tutti gli istituti bancari di emissione e, quindi, anche sulla Banca Romana. Inchiesta che fu affidata al senatore Alvisi e al funzionario del tesoro Biagini. L'investigazione si protrasse per più di due anni e venne coperta dal segreto più totale. Anzi, nel giugno del 1891, il presidente del Consiglio, marchese Di Rudinì, vietò al senatore Alvisi di riferire al Senato le risultanze dell'indagine in nome del “superiore interesse del Paese”. Verso la fine del 1892, però, lo stesso Alvisi, poco prima di passare a miglior vita, ebbe un sussulto di coscienza e riferì ad alcuni amici parlamentari i risultati dell'inchiesta sulla Banca Romana. Qualche settimana più tardi il deputato radicale, Napoleone Colajanni, rese note in pubblica udienza le “verità” che fino ad allora erano state nascoste. La Banca Romana non solo aveva emesso moneta per quasi il doppio della cifra autorizzata (113 milioni di lire contro 60) ma aveva sfornato anche 40 milioni di banconote false. Per di più, accanto alla circolazione abusiva, risultò un ammanco di cassa di 20 milioni e una falsificazione di bilanci che andava avanti da più di venti anni. Di fronte a tale situazione fu chiesta a gran voce al presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, una commissione parlamentare di inchiesta che potesse giungere alla individuazione dei veri responsabili di cosi grave truffa. Giolitti, però, si oppose strenuamente e preferì promuovere una sua inchiesta che affidò al presidente della Corte dei Conti Martuscelli. Qualcuno sostiene che Giolitti non volle la commissione parlamentare d'inchiesta specialmente per coprire il coinvolgimento diretto del re Umberto I di Savoia nella faccenda: il monarca, infatti, era grandemente indebitato con la Banca Romana. Questa volta l'inchiesta si concluse rapidamente e già nel gennaio del 1893 Martuscelli potè constatare la lampante esistenza della truffa. E così vennero subito arrestati Bernardo Tanlongo, governatore dell'Istituto, e il direttore Michele Lazzaroni. Di particolare interesse la figura di Tanlongo, meglio conosciuto come “sor Umberto”, tipico di quel sottobosco governativo che a Roma è sempre stato molto prospero. Da giovane era stato confidente della polizia papalina ed aveva fatto successo per la solerzia con la quale procurava “distrazioni” di ogni genere e tipo ai cardinali. Era poi entrato nelle grazie di Crispi fino a diventare ascoltato consigliere del re Vittorio Emanuele II. Ecco perché la notizia del suo arresto suscitò nell'Urbe molto scalpore. L'inchiesta appurò anche un coinvolgimento diretto della classe politica: il deputato Rocco De Zerbi, accusato di aver preso una mazzetta da mezzo milione, fu trovato morto nel suo appartamento, forse a causa di un infarto o, più probabilmente, per suicidio. Subito dopo, a dimostrazione del caos che lo scandalo stava suscitando in tutto il paese, un direttore del Banco di Napoli fu sorpreso mentre, travestito da prete, tentava di portare all'estero due milioni e mezzo di lire indebitamente sottratte al suo istituto. Quasi contemporaneamente venne ucciso in treno il marchese Notarbartolo, già direttore del Banco di Sicilia, che aveva denunciato una serie di abusi riguardanti il suo istituto. E quando sembrava che la bufera dello scandalo stesse quasi per passare, accadde che Tanlongo, in carcere, cominciasse a “cantare” ammettendo che la sua banca aveva dato cospicue somme di denaro ad alcuni presidenti del Consiglio tra i quali Crispi e persino a quello in carica Giolitti. Accuse che vennero confermate anche da Pietro Tanlongo, il figlio del governatore della Banca Romana. Scoppiò di nuovo il putiferio e Giolitti si ritrovò costretto ad affrontare interrogazioni parlamentari a getto continuo. Lo si accusava da più parti non solo di aver ricevuto indebitamente del denaro ma anche di aver contribuito ad insabbiare la relazione Alvisi-Biagini sulle irregolarità compiute dalla Banca Romana. Di fronte all'incalzare delle accuse Giolitti si vide costretto a nominare un comitato di sette parlamentari con il compito di appurare la verità dei fatti. Nel novembre del 1893 venne presentata in Parlamento la relazione finale: in essa si affermava che ben 22 parlamentari avevano beneficiato dei prestiti dalla Banca Romana. Nella lista compariva anche l'ex presidente del consiglio Francesco Crispi ma non Giolitti. Ad onor del vero il processo che ne scaturì terminò con l'assoluzione di tutti gli imputati. Anche se resta forte il sospetto che si sia trattato di una sentenza addomesticata considerata le implicazioni di parecchi esponenti di spicco della politica nazionale. Non a caso gli stessi giudici denunciarono la scomparsa di importanti documenti a corredo della intricata vicenda processuale. Giolitti era uscito indenne dalla bufera ma non era riuscito ad allontare del tutto dalla sua persona l'ombra dei sospetti. 
Dopo tanti anni continua a suscitare interesse: da questa vicenda la fiction con l'immancabile Beppe Fiorello
Anche se l'accusa di appropriazione indebita di denaro dalla banca si rivelò infondata (lo stesso Pietro Tanlongo confessò di averla lanciata su istigazione di Crispi che gli aveva promesso di tirare il padre fuori dal carcere) restava sempre il sospetto di un coinvolgimento, sia pure indiretto, del presidente del consiglio nell'affare. In parole povere nessuno credeva che Giolitti, a quel tempo ministro del tesoro, non avesse conosciuto i risultati dell'inchiesta Alvisi-Biagini e, quindi, le gravi irregolarità riscontrate all'interno della Banca Romana. E poi sia l'opinione pubblica che la classe politica rimproverava a Giolitti che, invece di punire come meritava Tanlongo, lo aveva addirittura proposto alla carica di senatore. E così neanche il riordino radicale del sistema creditizio approntato dal suo governo (da allora fu la Banca d'Italia, nata dalla fusione della Banca Nazionale con le due banche toscane, assieme al  Banco di Napoli e al Banco di Sicilia, gli unici tre istituti a poter emettere moneta) gli servì a molto. L'atmosfera, infatti, si mantenne molto pesante e nel novembre del 1893 provocò una dirompente crisi di governo che sfociò nelle dimissioni di Giolitti. Che, guarda caso, venne sostituito alla presidenza del Consiglio proprio da quel Crispi anch'egli pesantemente coinvolto nello scandalo. Quanto al mondo della finanza le fibrillazioni non si esaurirono con la messa in liquidazione della Banca Romana. Qualche settimana dopo ci fu un'ecatombe di banche: crollarono, infatti, l'una dopo l'altra, il Credito Mobiliare, la Banca Generale, il Banco di Sconto e Sete, la Banca Tiberina e così via di seguito. Eravamo sul declinare dell'Ottocento. Ma, come ben sappiamo, “historia se repetit”. E allora ecco che cose di tal genere accadono anche ai giorni nostri, in questo travagliato inizio di terzo millennio. E non bisogna essere buoni profeti per ipotizzare che fatti di tal guisa accadranno ancora. Purtroppo.


giovedì 19 giugno 2014

LA NAZIONE NAPOLETANA E L’EUROPA DEI POPOLI

di Antonio Sciaudone*

Pubblichiamo la relazione tenuta dall'avv. prof. Antonio Sciaudone lo scorso ottobre alla XVI Cerimonia di Capua


Chiunque si accinga ad esporre in pubblico le proprie riflessioni dovrebbe attenersi rigorosamente alla regola che prescrive di evitare di fornire qualsiasi spiegazione in ordine al titolo prescelto per presentare il tema affidatogli. Le ragioni sono evidenti. Qualora il titolo sia stato direttamente assegnato dagli organizzatori si deve infatti presumere che sia stato scelto con accuratezza e che l’uditorio, già con la sola presenza, abbia manifestato il proprio interesse e, perciò, ne confermi l’efficacia. Ove, invece, come nel mio caso, sia stato scelto da colui che è chiamato ad esporlo, qualsiasi spiegazione dovrebbe ricavarsi direttamente dallo svolgimento del tema, dalla conseguenzialità degli argomenti utilizzati, dalla precisione  delle conclusioni cui si perviene.
Questo almeno quando il relatore è bravo.
Ma poiché questa sera sono appunto io che dovrò intrattenervi, la speranza dell’uditorio è evidentemente mal riposta, e allora devo necessariamente, nel disperato tentativo di fare chiarezza, proporre qualche breve considerazione preliminare proprio intorno alle espressioni utilizzate per presentare il tema di oggi.
Dirò subito che non si è trattato di una scelta casuale, sebbene casuale sia stato l’incontro dal quale,  insieme con il dr. Salemi e con Francesco Salemi, è nata  l’idea di proporre una riflessione sulla Nazione napoletana e l’Europa dei popoli.
Mi ero incontrato con loro per ragioni molto più pratiche, e tuttavia si era data l’occasione di raccontare quale fosse lo sforzo che, nel Dipartimento di Scienze Politiche della SUN, nel quale  svolgo la mia attività universitaria, si andava via via compiendo per contribuire all’approfondimento di questioni cruciali per la convivenza civile e che oggi, forse come mai prima nella storia, reclamano un’attenzione ancora maggiore. Le ragioni della necessità di un aggiornamento degli studi, ma direi quasi di una rivoluzione degli studi, sulle modalità con le quali può essere organizzata la vita comune degli individui sono note a tutti e non è neanche il caso di fornirne un elenco dettagliato. Basta per tutte ricordare la enorme pressione demografica cui è sottoposto il pianeta e la facilità con cui enormi masse umane si muovono da un luogo all’altro  per comprendere come le vecchie categorie della politica, ma anche della filosofia e, in generale del pensiero umano, siano del tutto inadeguate a fornire risposte alle esigenze alle quali pure i governi devono, giornalmente, far fronte.
l'avv. Sciaudone (primo da sin.) durante il convegno a Capua durante la XVI Commemorazione dei soldati delle Due Sicilie Caduti nella Battaglia del Volturno del 1-2 ottobre 1860
Nel corso di quell’incontro ebbi modo di svolgere insieme con Giovanni e Francesco Salemi qualche riflessione sul tema della nazione e dello stato, nel tentativo di dimostrare come non necessariamente l’identificazione dell’una nell’altro costituisca un bene, dovendosi invece ritenere che la riduzione ad unità di specificità nazionali produca un grave impoverimento per i popoli, e ciò quand’anche sia possibile che le singole unità nazionali si possano inquadrare in ulteriori unità di livello, per così dire, superiore. Provavo insomma a spiegare come l’ideologia dello stato nazionale, che forse poteva anche aver svolto un ruolo nel corso della storia, sembrava oggi del tutto superata e non fosse affatto una bestemmia immaginare organizzazioni sociali più snelle di quelle che la storia di questi ultimi secoli ci ha consegnato. Ipotizzare un’Italia divisa non è dunque il sogno di un folcloristico ritorno al passato, ma il tentativo di costruire un futuro, ancora da italiano, di ritrovato splendore.
I miei interlocutori si interessarono al tema e ciò io lo ascrivo alla circostanza che il nostro incontro si svolgeva in un afoso pomeriggio d’estate, quando cioè si è tutti un po’ meno vigili, e mi proposero dunque di illustrare il frutto delle riflessioni compiute nel corso di questo incontro. Invito che ho accolto con estremo piacere, convinto come sono che noi napoletani, non in opposizione, non in una disastrosa e sterile guerra civile, ma insieme con le altre nazioni italiane,  ciascuna con le sue specificità, possiamo giocare un ruolo fondamentale nella costruzione del futuro dei popoli europei. 
E ciò, ripeto, non con lo sguardo rivolto ad un passato che è stato ormai consegnato alla storia, ma con il pensiero che anche in quel passato trova le ragioni per costruire con fiducia il futuro. 
Il titolo della relazione è quindi il frutto di una aspirazione; quella cioè di superare una visione burocratica e puramente amministrativa dell’Europa che si costruisce a Bruxelles, figlia esclusiva del capitale e di interessi economici di pochi, con una Europa, di tutti, che costituisca veramente la sintesi delle diverse sensibilità, delle diverse tradizioni, delle  diverse culture che identificano la vera nozione della Nazione Europea, parte a sua volta di quell’unica grande nazione costituita dalla Nazione Umana. 
Ovviamente non ho affatto la presunzione di fornire risposte a quesiti fondamentali o soluzioni a problemi di rilevanza ciclopica; perlomeno provo a formulare domande.
Bisognerà pure convenire che se dalla invenzione della ruota all’IPHONE le scienze cosiddette dure, penso anche alla medicina, hanno fatto progressi inimmaginabili, ancora pochi secoli fa,  e tali progressi si vedono non soltanto nei risultati, ma anche nello sviluppo del metodo della ricerca, e, se vogliamo, nella stessa ideologia della ricerca, al contrario le scienze umane, e in particolare le scienze della politica, si trovano ancora oggi ad utilizzare le categorie della Grecia di Socrate, sia pure aggiornate nel corso dei secoli e, in particolare, a partire della pace di Westfalia, nel corso degli ultimi tre secoli e mezzo.
Dovendo dunque ragionare sulla elaborazione di categorie del tutto nuove, sembrava innanzitutto utile evitare qualsiasi compromissione con la terminologia abitualmente usata : forma di stato, forma di governo, stato, confederazione di stati, stato federale, unione di stati, dottrina dello stato, e utilizzare formule  che, anche soltanto sul piano semantico, appaiano quanto più possibile neutrali (una neutralità assoluta non è evidentemente ipotizzabile). 
Proviamo dunque a riflettere partendo da un dato di fatto che sembra incontrovertibile : GLI UOMINI VIVONO INSIEME.
Se si assume questo dato di fatto come fondamento, ci si dovrà necessariamente chiedere quali siano le ragioni che spingono gli uomini alla convivenza e, verificato che, nella realtà, gli uomini tendono ad organizzarsi in gruppi, divisi tra di loro (a partire dalla famiglia e poi, quali cerchi concentrici, via via più grandi), ci si dovrà chiedere quali siano gli elementi che cementano i gruppi.
Ebbene, tentando di sintetizzare il più possibile, e dando per scontato che i meccanismi della collaborazione tra gli individui vengono avvertiti come strumenti che facilitano la sopravvivenza di ciascuno (evito accuratamente di far riferimento alle categorie elaborate tra il seicento e il settecento, da Hobbes a Locke a Rousseau, per rimanere soltanto ai pensatori che godono, come si direbbe oggi, di maggiore notorietà), è possibile verificare che l’unità dei singoli gruppi può realizzarsi o in maniera del tutto spontanea oppure può essere artificialmente imposta. 
In questa logica, la intercambiabilità delle nozioni di stato e di nazione, così come nel linguaggio comune è avvertita, non è affatto scontata. La nazione costituisce infatti un raggruppamento che si realizza nella storia, senza che i singoli individui che la compongono vi siano costretti, e senza, almeno fin ad un certo momento, che neanche ne abbiano consapevolezza, cioè senza che neanche avvertano di poter essere considerati, unitariamente, nel complesso quale “nazione”. Al contrario, lo Stato costituisce una articolazione artificialmente costruita e non necessariamente si identifica con una nazione.
La costruzione di una identificazione tra Stato e Nazione è il risultato di una elaborazione del pensiero settecentesco, filtrata nell’idealismo romantico dell’ottocento, e frutto di una precisa scelta tra i possibili concetti di nazione elaborati dai pensatori del tempo.
Procedendo in estrema sintesi, il concetto di nazione che, soprattutto quale esito della rivoluzione francese, si è imposto è di tipo burocratico-amministrativo, per così dire civile, e tende ad identificarsi con lo Stato, quale espressione appunto di una organizzazione fondata sulle regole del diritto. Una nazione-patria quale contratto sociale tra popoli che si riconoscono in una Costituzione comune è oggi configurata da Jurgens Habermas.
Una diversa nozione, anch’essa precisata nel secolo dei lumi, in particolare da Herder, è invece di tipo etico-culturale e con essa si individua una comunità i cui legami sono rappresentati dalla comunanza di lingua, di cultura, religione, tradizione.
Ebbene, se si esaminano alcuni esempi che possono esser tratti dalla storia, è possibile vedere come l’unità della nazione, nel senso da ultimo precisato, non sempre ha coinciso con l’unità della organizzazione statuale, burocratico-amministrativa. Anzi si potrebbe dire esattamente il contrario. Nessuno dubita della unità della nazione greca all’epoca della Grecia classica, eppure la organizzazione sociale era realizzata sul modello della città-stato; e tutti ricordano come le singole città fossero spesso in guerra tra di loro, circostanza, questa, che non impediva il ritrovamento della unità, ove si fosse trattato di fronteggiare il pericolo proveniente da un nemico esterno, portatore di valori altri. 
Allo stesso modo, almeno a partire da Dante e Petrarca, nessuno ha dubitato della esistenza di una nazione italiana, benché non esistesse affatto uno stato unitario. Non c’era siciliano che non sentisse come appartenente al proprio patrimonio la poesia del Dolce stil novo, o lombardo che non si riconoscesse nei poeti della corte di Federico II. Cimarosa e Iommelli non sono solo compositori aversani, ma appartengono indiscutibilmente alla musica italiana (e non soltanto a quella), per non parlare di Carlo Gesualdo da Venosa che è addirittura, ben prima di Bach, il riconosciuto fondatore della musica europea moderna.
Italia è dunque tutta la tradizione, la cultura, la sensibilità religiosa che si è sviluppata da quella culla delle nazioni che è stato il medioevo, ed attraverso pagine gloriose è giunta fino a noi.
Ora a me pare che la costruzione di una identità nazionale italiana non possa prescindere dalla considerazione secondo la quale essa non può essere considerata un monolite, vissuto ed esperito nello stesso modo da Aosta e Palermo, ma piuttosto il risultato di una differente declinazione del medesimo patrimonio pur riconosciuto comune. 
Intendo dire che a quella tradizione i diversi popoli italiani, le diverse nazioni italiane, hanno partecipato con orgoglio e a pieno titolo, ciascuna con le proprie singolarità, con le proprie specifiche storie.
Alla grandezza di quella tradizione, di quella storia ha partecipato la nazione napoletana. Non in opposizione o in contrasto con gli altri italiani, ma insieme con gli altri italiani. 
Non è quindi inesatto affermare che la esperienza nazionale italiana abbia trovato una delle sue possibili espressioni nella tradizione e nella identità nazionale napoletana, frutto a sua volta di specificità sue proprie, determinate dalla storia o da aspetti geografici, naturalistici, attraverso i quali si sedimenta la cultura, si affina la sensibilità e si plasma il carattere dei popoli (lo stesso Herder faceva riferimento all’importanza delle condizioni geografiche che contribuiscono a plasmare il carattere dei popoli) Vorrei qui evitare che si ricorresse a quella pessima immagine folcloristica di pizza, sole, mare e mandolino; pensate piuttosto all’importanza del sentimento della paura delle popolazioni costiere dell’Italia meridionale, e allo sviluppo di una architettura di difesa fatta da torri di avvistamento, oppure alla capacità di apertura e di accoglienza, ancora legata all’elemento dell’acqua del mare, ove il mare venga considerato non quale confine naturale, ma come ponte, mezzo attraverso il quale si possono raggiungere popoli lontani e con essi intrattenere proficue relazioni, fatte non tanto e non soltanto di scambi economici, ma soprattutto culturali, religiosi, sociali, di condivisione sentimentale.  
Ebbene non si tratta qui di rivendicare una grandezza napoletana e nemmeno di riproporre stucchevolmente alcuni stereotipi della napoletanità. Si tratta invece di riflettere su una specificità che, in chiave non oppositiva, costituisce una ricchezza di tutti. 
Se si condivide l’idea che possano essere individuati gli elementi linguistici, culturali, popolari, religiosi, tradizionali di una Nazione Napoletana, nei termini precisati di una nazione cioè appartenente ad una più grande Nazione Italiana, della quale, quindi, Napoli costituisce una delle diverse articolazioni, ci si deve interrogare su un aspetto che non è di scarsa rilevanza. La nazione si costituisce via via, e prende forma, ma si afferma veramente nel momento in cui acquisisce una propria consapevolezza. Vi è cioè un momento fondativo delle nazioni, o più precisamente, un momento del riconoscimento della nazione.
A me pare che questo momento nella nostra storia debba esser fatto coincidere con l’opera di Carlo di Borbone. Si tratta di un’epoca nella quale il processo di maturazione di una identità nazionale, nel senso che ho tentato di precisare, perviene al suo compimento e probabilmente, per coincidenze fortunate, trova anche colui che è in grado di interpretarlo e rappresentarlo al suo livello più alto. L’affrancamento dal dominio straniero che con Carlo si consegue libera tutte le migliori energie, e nella organizzazione del nuovo stato, tenuto ovviamente conto delle condizioni dei tempi e dei modelli di governo dell’epoca, si cementa una unità tra le diverse componenti che sarà poi messa in crisi soltanto con i fatti del 1799.  
In quel modello, dunque, lo Stato si realizza perché riconosce e rafforza la Nazione; non è un modello artificialmente imposto. Per dirla tutta : la nazione napoletana già c’era. I napoletani già c’erano. Carlo ha dato una forma di governo a qualcosa e a qualcuno che già esisteva. Con Carlo non accadde quello che sarebbe accaduto 130 anni dopo. Nessuno avrebbe mai potuto dire : “abbiamo fatto lo Stato Napoletano, adesso dovremo fare i napoletani”. 
L’osservazione appena formulata consente di rilevare come al contrario la costruzione di una unità identificata in uno stato nazionale italiano, di là da tutte le considerazioni di carattere politico (pur evidentemente rilevanti), sia stata del tutto artificiale e, del resto, che si tratti di artificio lo dimostra il fatto che, a distanza di un secolo e mezzo, gli italiani non sono ancora stati fatti. O meglio, direi che gli italiani sono stati del tutto disfatti. Questo tra l’altro ci consente di dire che se in Italia è individuabile uno Stato-apparato non si può affatto riconoscere uno Stato-nazione, espressione con la quale si identifica un popolo organizzato intorno ad un potere centrale.
Se centocinquant’anni fa una nazione italiana ben poteva dirsi sussistente, e nel rispetto delle differenti articolazioni, e nella diversità dei governi (i famosi sette staterelli) ben poteva parlarsi di Italia nazione una,  oggi non c’è forse al mondo popolo più diviso del nostro. Il divario tra nord e sud ha raggiunto livelli inimmaginabili; il clima di guerra civile sopravvissuto al 25 aprile 1945 e spregiudicatamente rinfocolato da coloro (partiti, sindacati, mezzi di comunicazioni, poteri forti, piccoli medi e grandi) che da esso traggono il loro sostentamento ci restituisce un Paese che non riesce a trovare un solo momento di concordia. L’idea che attraverso il perseguimento del bene comune si possa raggiungere il soddisfacimento dell’interesse dei singoli ha definitivamente abbandonato il cittadino, inerme di fronte al saccheggio delle risorse nazionali.
Si può dunque affermare che se, prima dello stato unitario, esisteva una grande Nazione Italiana, faro ed esempio per i popoli di tutto il mondo, ma non esisteva uno stato nazionale, dopo 150 anni abbiamo sì uno stato nazionale, ma al costo di aver distrutto la Nazione.
E, del resto, che il rilievo di una nazione non dipenda dall’essere necessariamente costituita in uno Stato è dimostrato anche dalla vicenda della Grecia, che nel corso della sua plurimillenaria storia non ha mai più raggiunto la grandezza dei tempi di Atene e Sparta in lotta fra loro.
Il modello di organizzazione dello stato unitario è dunque definitivamente fallito.
Il fallimento è il risultato del combinarsi di ragioni di carattere generale e di ragioni specifiche, proprie del nostro Paese.
Quanto a queste ultime, se il peccato originale, come ho cercato di dire, è individuabile nella costruzione artificiale dell’unità, la degenerazione finale è diretta conseguenza del modello istituzionale prescelto e, soprattutto, dei meccanismi che alimentano la spesa pubblica. A questo proposito, di là dalla questione degli sprechi, non credo possa dubitarsi che l’inefficienza dello Stato nel distribuire le risorse drenate attraverso un sistema fiscale oppressivo e liberticida sia all’origine dell’esasperato rilievo nella vita sociale che ha assunto la delinquenza organizzata. Si badi bene, non che camorra o mafia non esistessero prima dell’Unità d’Italia; soltanto deve riconoscersi che, senza la possibilità di inserirsi nel grande gioco degli appalti, o nelle maglie della gestione di apparati pubblici (pensate alla gestione dei posti di lavoro o alle forniture degli ospedali) il salto dal guappo alla mafia dei colletti bianchi non sarebbe stato possibile. La costruzione artificiosa di continue emergenze idonee a giustificare grandi sprechi costituisce direi quasi la “cifra stilistica” dell’intervento pubblico in economia; intervento che si dirige a beneficio esclusivo dei corpi malavitosi che si infiltrano nei meccanismi arrugginiti e corrotti della burocrazia. In questo momento è sotto gli occhi di tutti la costruzione della nuova emergenza, per la quale già si invocano leggi speciali : la bonifica delle terre campane inquinate. Bonifica sacrosanta la realizzazione della quale, se nessuno vigilerà, sarà affidata a coloro che quelle terre hanno inquinato, i quali intascheranno le somme stanziate, ma non bonificheranno alcunché. 
Se invece pensiamo a ragioni più generali del fallimento del modello di stato unitario, e vogliamo evitare di ricordare che nel corso degli ultimi due secoli la ideologia degli stati nazionali ha prodotto milioni e milioni di morti, possiamo rilevare che sono definitivamente venuti meno i presupposti stessi che consentivano la configurazione dell’idea di stato di tipo ottocentesco. 
Per semplificare possiamo dire che attributi dello stato sono la sovranità, l’indipendenza, e l’esercizio del potere all’interno di un determinato confine.
L’espressione prima della sovranità è costituita dall’esercizio del potere legislativo, dalla esclusiva applicazione all’interno del proprio territorio di leggi promulgate secondo i criteri formali di produzione legislativo, dalla difesa dei confini, dalla capacità di battere moneta e decidere la propria politica monetaria, dalla autonomia della politica economica, dalla capacità di consentire o impedire (anche attraverso meccanismi di tipo doganale) l’ingresso alle merci straniere.
Ebbene nessuna di queste prerogative della sovranità è più presente negli stati moderni. Qui non voglio stabilire se questo sia un bene o un male. E’ il frutto della globalizzazione e, ove se ne volesse discutere, si dovrebbe organizzare un altro convegno. Intendo soltanto rappresentare il fatto.
Le leggi che si applicano in Italia vengono prodotte a Bruxelles, se non addirittura in sede di negoziati della WTO; anche le sentenze delle nostre Corti possono essere e, di fatto spesso lo sono state, modificate e stravolte a Bruxelles o addirittura a Strasburgo. Finanche la nostra Corte Costituzionale ha dovuto adeguare le proprie decisioni a quelle di Corti che non si trovano sul territorio nazionale. La politica economia e monetaria non è evidentemente decisa a Roma, ed oggi forse neanche a Bruxelles, ma a Berlino.
Che senso ha dunque mantenere uno stato unitario, che costituisce un inutile, anzi dannoso ingranaggio che si frappone fra i popoli e le istituzione che oggi veramente sono in grado di gestire il potere ? Che la domanda appena formulata abbia una sua dignità e meriti riflessioni approfondite è dimostrato finanche dalla nostra carta costituzionale, così come è risultata modificata dalla riforma del titolo V del 2003.
Nel testo attualmente in vigore (e in quello che sarà vigente a decorrere dall’esercizio finanziario 2014), la potestà legislativa spetta alle Regioni “in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”, ma non solo, materie importanti, quali rapporti internazionali e con l’Unione Europea delle Regioni o commercio con l’estero, sono attribuite alla competenza concorrente delle Regioni.
Ciò significa che finanche il distratto legislatore costituzionale italiano ha dovuto prendere atto che l’articolazione migliore delle diverse istanze si realizza attraverso un collegamento diretto (quindi non filtrato dagli ingranaggi inceppati e burocratici di Roma) tra le diverse realtà territoriali e l’Europa.
Sapete tutti che le norme appena richiamate hanno prodotto, quale unico risultato, lo spreco di ingenti risorse pubbliche utilizzate soltanto per consentire l’apertura di lussuosissime quanto inutili  sedi diplomatiche delle diverse regioni italiane nelle strade più importanti delle maggiori città europee e statunitensi (la nostra regione poi non ha mancato di distinguersi, ottenendo anche in questo caso un triste primato). 
Ma questo ancora accade per la distanza ormai incolmabile tra gli apparati e i cittadini. 
Una distanza che consente e legittima una visione meramente economicistica e burocratica dei rapporti cittadino-stato; in cui alla fine lo stato si spersonalizza a tal punto da far perdere di vista la ragione stessa della sua esistenza (il benessere di tutti e di ciascuno) e diventa una sorta di mostro al quale il cittadino viene sacrificato. Lo stato democratico, concepito per la esaltazione delle libertà individuali, diventa il maggior oppressore del cittadino e lo trasforma in suddito; ed esso stesso, lo stato, è a sua volta soggetto e succube del potere economico, unico e definitivo arbitro delle sorti dell’uomo. Ridotto lo stato a simulacro vuoto, pronto a sbriciolarsi alla prima occasione propizia, resta unicamente il danaro, che si consolida e rafforza per mano di burocrati e tecnici. 
Il rafforzamento dei singoli popoli europei e l’eliminazione delle catene che li tengono coattivamente uniti, sarebbe invece utile per eliminare tutte le dannose sovrastrutture che, negli apparati decisionali, allontanano le scelte dalle reali esigenze dei cittadini. 
Se così è non sembra azzardato ritenere che tocchi ai popoli, alle nazioni, quelle vere, non artificiali, riprendere in mano il proprio destino, e contribuire con meccanismi di collegamento effettivi tra loro allo sviluppo e al progresso dell’umanità. Dall’unità del genere umano si deve ritornare all’unità, ma senza annullare e distruggere le differenze, senza omologazioni forzate, in un processo nel quale l’incontro delle differenze deve costituire ricchezza di tutti. 
Può in questo la Nazione Napoletana giocare un ruolo. Io credo di sì.
A patto, però, di una profonda inversione di rotta.
Come molti di voi ho visto al cinema il film tratto dal noto romanzo “Gomorra”.
E’ inutile che vi racconti come attraverso quel film non sia venuto a conoscenza di alcun segreto che già non conoscessi. Vivo in queste terre e sono, prima ancora che un professore, un avvocato. Non mi sono quindi stupito delle raccapriccianti scene di violenza e sopraffazione.
Sono però rimasto inorridito dalla parte finale del film. E’ la parte in cui ad un ragazzino, appena adolescente, viene imposto di fare da esca per poter stanare ed uccidere la madre di un altro ragazzino che, nella folle logica delle giovani belve, aveva tradito. Il ragazzino, legato da affetto verso la donna, cerca di sottrarsi. Ma gli altri non gli danno scampo. La logica, primitiva, si racchiude nella frase “o di qua o di là”, “o con noi o con loro”, “o è bianco o è nero”. Questo sì che mi ha lasciato inorridito. Un popoli che dalla Magna Grecia, da Parmenide di Elea a Giordano Bruno, a Giambattista Vico ha spiegato al mondo intero la complessità della vita, ha immaginato e compreso di quale infinita scala di grigi è fatta la esistenza dell’uomo, in quale caleidoscopio di colori si inscrive e rappresenta la esperienza di ogni singolo essere umano, costretto alla logica primitiva del bianco e del nero.
A questa logica del bianco e del nero non dobbiamo piegarci. Così potremo ancora, con tutte le azioni del mondo, continuare il nostro cammino lungo la strada della civiltà e del progresso.
Da Napoli, all’Italia, all’ Europa, all’intero pianeta.



*Il prof. Antonio Sciaudone è nato a S. Maria C.V., ove tuttora risiede, il 29 ottobre 1958. E’ professore ordinario di diritto agrario (settore disciplinare IUS/03) chiamato a ricoprire l’incarico dell’insegnamento del diritto agrario comunitario presso il Dipartimento di Scienze Politiche "Jean Monnet" della Seconda Università degli Studi Napoli. Presso la medesima struttura è titolare dell'insegnamento di Diritto agro-alimentare e dell'impresa, E' stato coordinatore del dottorato di ricerca in Giustizia Tributaria. E' stato direttore del Master in Diritto ed economia delle comunità europee. Procuratore legale dal 23 luglio 1983, è dottore di ricerca in Diritto Comune Patrimoniale, ecc., ecc.
.

martedì 10 giugno 2014

il 13 GIUGNO A ROMA SI PARLA DE IL BRIGANTAGGIO POSTUNITARIO


IL CENTESIMO NUMERO DE L'ALFIERE

L'Alfiere  è giunto
Al CENTESIMO NUMERO
Nel segno della tradizione e nella linea dell'avv. Silvio Vitale.
In difesa del Sud, della  verità storica e della dignità dei popoli delle Due Sicilie.

Napoli, 14 giugno 2014, ore 17,30
CONVEGNO
a Palazzo San Teodoro,
Riviera di Chiaia 281

PROGRAMMA:
ore 17,30
apertura del convegno
coordina
Edoardo Vitale
magistrato, direttore de L'Alfiere
intervengono
Pietro Golia
giornalista, editore
Eugenio Bennato
musicista, scrittore
Fernando Riccardi
giornalista, scrittore
Guido Belmonte
ricercatore storico
Massimo Cimmino
ricercatore storico
Gianni Turco
scrittore
Marina Lebro
antropologa, scrittrice
Enzo Amato
musicista, scrittore
Gennaro Rispoli
primario di chirurgia
Ospedale degli incurabili, Napoli




Il cielo